“Non potevamo bloccare il processo democratico”

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Ha detto I ragazzi di Tahrir Sono bravi a protestare e far cadere i governi ma poi non hanno la capacità  e la voglia di assumersi responsabilità  La leva di Washington In una banca di New York ci sono 1,3 miliardi di aiuti per l’Egitto. Li rilasceremo solo se i militari accetteranno la democrazia Fratelli Musulmani Potrebbero fare l’accordo con l’esercito per condividere il potere. Così il Paese avrebbe la stabilità  I sostenitori di Morsi festeggiano la vittoria sulla piazza Tahrir Il trattato con Israele Il rispetto degli accordi di pace è sicuramente il primo banco di prova per la presidenza Morsi Il politologo neocon Francis Fukuyama è celebre per il saggio «La fine della storia» scritto dopo la caduta del Muro.
Non facciamoci illusioni: i Fratelli Musulmani sono un movimento intollerante, e cercheranno di costruire uno Stato islamico. Però non potevamo schierarci con i militari e bloccare il processo democratico, perché ormai sappiamo che appoggiare le dittature non garantisce più la stabilità  nel mondo arabo».
Da quando Francis Fukuyama aveva proclamato la «Fine della storia», al mondo ne sono successe di tutti i colori. Ma secondo il professore di Stanford anche la Primavera araba, e gli ultimi sviluppi in Egitto, si inseriscono in quella trasformazione globale cominciata con l’archiviazione della Guerra Fredda, e ancora in corso.
Professor Fukuyama, come giudica l’elezione di Mohammed Morsi alla presidenza?
«Siamo solo all’inizio di un processo lungo e incerto. Il fatto che avesse vinto le elezioni era noto da tempo. Dal giorno del voto a oggi si è svolto un intenso negoziato tra i Fratelli Musulmani e l’esercito, per stabilire le condizioni a cui i militari avrebbero consentito la conferma del risultato. Io non conosco le concessioni che Morsi ha fatto in cambio della proclamazione a presidente, ma da queste dipenderà  il futuro dell’Egitto e la stabilità  dell’intera regione».
Pensa al rispetto del trattato di pace con Israele?
«È sicuramente il primo banco di prova, ma non l’unico. L’Egitto non ha alcun interesse pratico a riaprire una situazione conflittuale con lo Stato ebraico, ma è difficile prevedere come si comporterà  un governo guidato dagli islamici».
Quali sono gli altri banchi di prova?
«I militari alla fine accetteranno lo sviluppo di una democrazia completa, o useranno la forza per mantenere il potere? Se i Fratelli Musulmani otterranno la guida dell’Egitto, fino a che punto si spingeranno nel trasformarlo in un Paese islamico? I laici che hanno immaginato e condotto la protesta in piazza Tahrir accetteranno questa situazione? E se la rifiuteranno, hanno la forza di cambiarla?».
Il governo americano non ha preso una posizione ufficiale nelle elezioni, ma ha sollecitato i militari a consentire che la democrazia continui il suo percorso: così non si è reso complice della vittoria dei Fratelli Musulmani?
«Non c’erano molte alternative. La vittoria degli islamici non è la soluzione che avremmo voluto, ma la politica seguita nel passato di appoggiare le dittature non funziona più. Non garantisce la stabilità  e quindi non aiuta i nostri interessi».
Perché i ragazzi di Piazza Tahrir non sono riusciti a diventare un soggetto politico?
«I giovani illuminati della classe media sono bravi a protestare e far cadere i governi, ma poi non hanno la capacità  e la voglia di assumersi le responsabilità  e le fatiche necessarie a organizzare un partito, creare il consenso, vincere le elezioni e governare. È già  successo in Russia, Ucraina, e in molti altri posti. Twitter e Facebook aiutano la protesta, ma non bastano a costruire uno Stato».
Cosa deve fare Washington adesso?
«A marzo abbiamo autorizzato la ricorrente concessione di aiuti all’Egitto per 1,3 miliardi di dollari, che però si trovano in una banca di New York e non possono essere trasferiti senza il via libera del governo americano. Sono l’unica leva che abbiamo, perché il tempo dell’influenza che nasceva dai rapporti di forza geopolitici ereditati dalla Guerra Fredda è finito. Quindi dobbiamo bloccare questi fondi e spiegare chiaramente ai militari che li rilasceremo, e continueremo a collaborare con loro, solo se consentiranno alla democrazia di affermarsi davvero».
Ma così gli occidentali non finiscono per fare il gioco degli estremisti islamici?
«Nello stesso tempo dobbiamo lavorare affinché le forze della società  araba che ci sono più vicine crescano, e riescano a diventare gli elementi maggioritari in tutta la regione».
All’epoca delle vittorie del Fis in Algeria e del partito islamico in Turchia, lei ci disse che non c’erano alternative: per consentire alla democrazia di affermarsi bisognava lasciare che questi movimenti vincessero le elezioni, sperando poi che fallissero la prova del governo o cambiassero. Pensa che questa sia ancora la strada da seguire?
«In Egitto l’accordo tra Fratelli Musulmani ed esercito potrebbe portare a una forma di condivisione del potere, che darebbe al Paese la stabilità  e il tempo necessario affinché altre forze più moderne possano emergere. Noi dobbiamo aiutare queste forze, senza però dare la sensazione che stiamo interferendo. È la strategia da seguire in tutta la Primavera araba, tenendo sempre presente un fatto: la democrazia è il nostro interesse, ma non si crea in qualche mese. Ci vorranno anni di lavoro intenso e delicato per vincere questa partita


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