Norvegia L’innocenza perduta

by Editore | 21 Giugno 2012 12:37

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OSLO – La Norvegia, o come essere ricchi e gentili in un’Europa impoverita e rancorosa. In cima alle classifiche sulla qualità  della vita, la Norvegia ha accantonato e messo a frutto «per le generazioni future» centinaia di miliardi di euro, ricavati da petrolio e gas del mare del Nord, e nuovi enormi giacimenti sono stati scoperti nel mare di Barents. Piove sul bagnato. Il 15 giugno l’istituto di statistica ha dato una notiziola: il surplus commerciale è cresciuto in un anno del 44,5 per cento, a 5,8 miliardi di euro, grazie all’aumento dell’esportazione del petrolio e alla vendita record, 120 milioni di dollari, dell’Urlo di Edvard Munch, unico esemplare su quattro in mano privata. In un altro famoso quadro di Munch c’è una donna sdraiata di traverso su un letto, vestiti e capelli in disordine, bottiglie vuote in primo piano. Si intitola “Il giorno dopo”. Dallo scorso 22 luglio la Norvegia sta vivendo il suo lungo giorno dopo. La sua triste icona è ora Anders Behring Breivik, seduto su un banco di imputato, vestiti e pettinatura pedantemente in ordine. Psichiatri e altri competenti di cose umane si sono affaccendati per mesi attorno a questa creatura misteriosa, o forse del tutto trasparente, e repellente. Non so se qualcuno
abbia suggerito che Breivik sia anche uno della genìa degli sfregiatori di capolavori. Certo nessuna Gioconda, nessun Urlo, varrebbe le vite che ha spento o mutilato. Però l’impulso a squarciare una tela preziosa e custodita deve averlo mosso. Si può assicurarsi il proprio quarto d’ora fra i posteri sparando al papa, o sfregiando la Gioconda — o facendo strage di ragazzi in un isolotto pittoresco del lago di Tiryfjord. La tela che ha squarciato è un paese benedetto dal Creatore,
che le assegnò mari e monti in una combinazione incomparabile — e poi, in una prodigalità  supplementare, petrolio.
Il petrolio ha cambiato la faccia della Norvegia nell’arco di neanche quarant’anni, e ne ha fatto, da un paese bellissimo ma arduo e povero, il più ricco d’Europa e dei più ricchi al mondo. Un cambiamento così repentino ha pochi paragoni: e tuttavia quei quarant’anni sono stati abbastanza lunghi da far dimenticare a molti norvegesi in età , e oscurare agli occhi dei giovani, il passato recente. La ricchezza
si vede con gli occhi e si tocca con le mani nelle città  norvegesi — ci arrivavo da un soggiorno ad Atene, dov’è la povertà  a venirti addosso. Forse questa sensazione non è la stessa dei norvegesi, e ci si abitua più facilmente alla ricchezza che alla povertà . Un’amica, cui raccontavo quanto Atene sia fitta di mendicanti, mi ha risposto che anche Oslo:
ce ne sono, a Oslo, rom rumeni soprattutto, ma lei non ha idea della differenza. Accanto al portone di un palazzo di Bergen c’è un giovane mendicante
di bronzo, semisdraiato, coi piedi nudi e una mano sporta, cui un rifinitore ha infilato fra le dita una cicca. L’intenzione dell’opera è squisita — una targhetta avverte che «nessuno è soltanto quello che sembra » — ma si ha l’impressione che il mendicante scolpito stia lì per supplire ai pochi veri.
Viaggiare in Norvegia, paese lungo, è una ininterrotta lezione di geografia, e di meteorologia, soprattutto. Prima del petrolio la ricchezza era l’acqua, e lo sarà  dopo. Un paese che ha il sole di mezzanotte ha anche il buio di mezzogiorno, e la vita degli umani deve aver somigliato a quella degli altri animali che non seguono l’alternanza delle giornate ma delle stagioni, e passano dal lungo letargo alla lunga veglia. L’immagine classica della Norvegia mette assieme l’asperità  della natura con la sua bellezza. L’opera degli umani ha teso a emulare la forza della natura, altre volte a risarcirsene con una grazia e perfino una leggiadria fiabesca: case di bambola, forme di eleganza raffinata, dalla prua a chiave di violino della nave di Oseberg alle
stavkirke,
le medievali chiese di legno, gesti inesorabilmente gentili, come le rose e le candele
le vittime di Utoya.
La Norvegia fissata dalla sua cultura, di Ibsen e di Hamsun, di Nansen e di Amundsen, era il paese povero: quelli restano i
numi tutelari, ma il paese non è più il loro. A Oslo c’è un nuovo teatro dell’Opera, è un bellissimo iceberg di marmo di Carrara e quercia bianca, sale dall’acqua del mare al cielo; ma è anche colossale, e se non fosse per quel fiordo e per quel cielo sembrerebbe Dubai. Non c’è dubbio che passi un rapporto diretto fra petrolio e colossalità , e inverso fra petrolio e democrazia. In Norvegia la democrazia è esemplare. Ma una febbre leggera, un senso di precarietà  se non di colpa, corre anche sotto la sua pelle,
inavvertita prima dello sfregio di Breivik. La Norvegia povera, guardata come la parente povera e rozza dai suoi padroni di un tempo, danesi e svedesi, oggi invidiosi del suo tenore, ebbe già  una incomparabile apertura verso il resto del mondo, e tenne un rango senza proporzione con la sua popolazione — che ancora non tocca i cinque milioni — dalla Società  delle Nazioni alle Nazioni Unite. Allora si trattava appunto di aiutare i più poveri del mondo lontano. Era, per dir così, un’ «adozione a distanza». Nella quale pesano alla pari i due ingredienti: quello dell’adozioper
ne, e quello della distanza.
Fino all’avvento del petrolio gli stranieri poveri arrivavano in Norvegia per i disastri della storia, come i boat-people vietnamiti. Dopo, la Norvegia ricca è diventata una meta ambita delle migrazioni che investono tutta l’Europa occidentale: Oslo ha più del 25 per cento di cittadini di origine straniera (somali, i più temuti, iracheni, pachistani, afgani, ma anche svedesi, danesi, polacchi). L’adozione a distanza continua, e la Norvegia devolve all’aiuto internazionale
risorse incomparabili con la generalità  dei paesi sviluppati. E tuttavia gli stranieri arrivano qui, l’adozione diventa ravvicinata, e pone i problemi che dovunque solleva il vicinato fra diversi. La scelta multiculturale non è venuta meno, ma si è fatta via via meno ingenua e ottimista, e a volte si è indurita drammaticamente, come nel trattato di estradizione con l’Etiopia, “compensato”, nelle intenzioni del governo, da un raddoppio dell’aiuto allo sviluppo del paese: a spese dei richiedenti asilo e dei loro figli
nati in Norvegia.
Negli anni recenti la destra che ha fatto più leva sull’ostilità  agli stranieri, il Partito del Progresso (i nomi scherzano), aveva conosciuto un’ascesa forte,
e scalzato il tradizionale Partito Conservatore (che si chiama Destra). L’impresa di Breivik, che aveva avuto una frequentazione del Partito del Progresso,
ha contribuito al suo consistente declino. Il trauma della scoperta che quel feroce terrorista era “nostro” ha colpito il linguaggio del “noi e loro” fo-
mentato dagli xenofobi. Fra i giovani socialisti uccisi o mutilati da Breivik non pochi erano di origini straniere. L’effetto dirompente che avrebbe avuto la strage se a commetterla fosse stato un terrorismo islamista — come in molti si sbrigarono a gridare — si è mutato nel suo opposto, e le indagini di oggi dicono di una migliore comprensione e simpatia reciproca fra norvegesi “di ceppo” e recenti e nuovi arrivati. Non è detto che sia un effetto duraturo.
La Norvegia fa eccezione nella situazione europea, e se i due referendum passati sull’adesione alla UE, pur favorita dai partiti maggiori, la videro respinta di misura, oggi la schiacciante maggioranza dei norvegesi la esclude, e un nuovo referendum è improponibile. I sondaggi danno alle prossime elezioni, nel settembre 2013, vincente il Partito Conservatore, nonostante il prestigio personale di cui gode il primo ministro laburista, Jens Stoltenberg. Il travaso di consensi dal Partito del Progresso al più rassicurante Conservatore mostra come la strage di Breivik abbia reso (provvisoriamente) meno presentabili le tesi xenofobe, ma al tempo stesso una preoccupazione rimanga. Interlocutori norvegesi mi dicono che la questione dei migranti non è la più sentita, e che prevalgono i problemi economici, la polemica sulle proporzioni in cui l’enorme reddito petrolifero va accantonato per il futuro, o vada invece speso per il goloso presente, ecc. Può darsi, e proprio fra maggio e giugno la Norvegia ha conosciuto, per la prima volta
dopo 28 anni, forti scioperi dei lavoratori pubblici.
Ma può anche darsi che la Norvegia, così profondamente ferita, non abbia voglia di guardarsi fino in fondo nello specchio rovesciato dell’infamia del suo terrorista di buona famiglia. E’ la questione che sta al centro del processo che sta per concludersi a Oslo, cui ho assistito per alcuni giorni. Breivik — che è pazzo, e che non è affatto pazzo — appartiene anche alla genia degli sfregiatori: della bellezza, del lusso, della calma e del piacere.

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