Se la gente d’Europa reclama il ritorno della politica

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La sera del 6 maggio 2010 i banchieri della Bce stavano cenando con le mogli nel ristorante del cinquecentesco Palazzo di Bacalhoa a Lisbona. Di colpo i loro BlackBerry cominciarono a vibrare simultaneamente: Wall Street stava andando a fondo, accusando la perdita giornaliera più forte della storia (il flash crash). Il presidente della Banca centrale, Jean-Claude Trichet, chiese immediatamente ai commensali di spostarsi nella cantina dei vini per tenere un improvvisato e drammatico gabinetto d’emergenza. Fu in quella occasione, tra bottiglie di Porto e di Madeira, che il presidente della Bundesbank Axel Weber infranse il canone dell’ortodossia rigorista tedesca, esclamando: «La Bce deve comprare i titoli di Stato emessi dai governi europei!».
Forse non è un caso se i passaggi più drammatici della crisi dell’euro si siano consumati in luoghi lontani dalle istituzioni europee, a Bruxelles o Strasburgo. Vertici all’Eliseo, nella Cancelleria di Berlino, a Deauville o Cannes. Ovunque capiti. Anche in un camerino dell’Alte Oper di Francoforte, ai margini del concerto per il passaggio di consegne tra Trichet e Mario Draghi. Quattro anni aspri, duri, perfino spietati, come racconta Carlo Bastasin, editorialista del «Sole 24 Ore», nel libro Saving Europe, scritto in inglese e pubblicato dalla Brookings Institution Press, la casa editrice dell’importante centro di ricerca politica di Washington (pp. 354, $ 34,95). La Germania e la Francia, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy. E poi Silvio Berlusconi, George Papandreou, Jean-Claude Juncker, Josè Manuel Durao Barroso, Trichet e Mario Draghi. Ci sono tutti, protagonisti e comparse, vincitori e sconfitti.
Una ricostruzione che può essere considerata definitiva, in cui si incrociano retroscena riportati con penna felice, analisi economiche senza esoterismi e in più la giusta dose di realismo per arrivare alla sostanza politica: How national politics nearly destroyed the euro, avverte il sottotitolo, cioè come le politiche nazionali hanno quasi distrutto la moneta unica. Bastasin ripercorre la storia di una corsa affannosa e dal risultato incerto, ma con un filo conduttore paradossale: non si è mai vista così poca Europa, proprio mentre si cercava di salvarla. Oggi la nuova formula di riferimento è la «vera unione fiscale», che dovrà  necessariamente appoggiarsi a una sempre maggiore integrazione politica tra i 17 Paesi della zona euro (per gli altri si vedrà ). Ma è davvero un obiettivo plausibile? Dal 2008 in poi la ventennale architettura fondata sul trattato di Maastricht si è come afflosciata sotto il carico del dissesto bancario e finanziario mondiale. Il punto è che le infrastrutture più federali erano già  state manomesse prima, in nome e per conto degli interessi nazionali. Basta citare i parametri del Patto di stabilità  devitalizzati nel 2003 da Francia e Germania con la copertura dell’Italia.
Quando è arrivata la crisi, l’Europa comunitaria ha rivelato la sua inadeguatezza, accentuata, come giustamente nota Bastasin, dall’evanescenza della Commissione europea, con il presidente Barroso impegnato più a compiacere tedeschi e francesi, in vista di una riconferma personale, che a far valere il ruolo di Bruxelles. Tuttavia la catena degli avvenimenti a cui siamo ancora legati si può leggere con una doppia chiave. La crescente centralità , nel bene e nel male, di Angela Merkel, implica la simmetrica inutilità  delle istituzioni europee. Ma nello stesso tempo lo strapotere tedesco, imponendo misure economiche insostenibili e soprattutto irrealizzabili nel breve termine, finirebbe per distruggere la moneta unica e cancellare 55 anni di integrazione europea.
Berlino, più per inerzia degli avvenimenti che per lucido disegno, si trova ora nella condizione di imporre una finta scelta agli altri partner: o l’Unione Europea «si germanizza» o non ha futuro. Detto in altre parole, l’inaffidabilità  della Grecia (politica prima ancora che economica), il rischio costante rappresentato dalle banche spagnole e dal debito pubblico italiano sono (forse) addomesticabili solo in un quadro di nuove regole alla tedesca. Oggi si chiama fiscal compact, il trattato sui vincoli di bilancio, domani sarà  «coordinamento delle politiche economiche», o qualcosa del genere. In questo quadro, e nel lavoro di Bastasin emerge con chiarezza, il ruolo della Bce (sia nella versione Trichet che in quella Draghi) è, e sicuramente continuerà  a essere, fondamentale. La lettera prescrittiva inviata nell’agosto 2011 dai due banchieri a Berlusconi non è un passaggio emergenziale, ma forse il punto di partenza di un nuovo equilibrio che ora dovrà  consolidarsi in assetti istituzionali. Bastasin osserva che «il contagio finanziario» ha di fatto già  aperto l’epoca dell’interdipendenza, che ora potrebbe portare a una stagione di «mutualità » e anche di «solidarietà » fra i Paesi europei. Non solo: «Di fatto — scrive Bastasin — il tradizionale confronto tra destra e sinistra a livello nazionale diventa meno significativo rispetto alle indicazioni dettate dall’interdipendenza europea. E prima o poi una dimensione non nazionale basata sulla contrapposizione destra-sinistra emergerà  per rivitalizzare le nostre concezioni della politica».
L’esito della lunga crisi, dunque, potrebbe essere quello di una mutazione genetica dell’Unione Europea. Bisogna capire, allora, se e come può cambiare lo scenario attuale. Dal trattato di Roma (1957) fino a quello di Lisbona (2007) si è venuto sviluppando un modello atipico, a cominciare dalla classica divisione dei poteri. Oggi Berlino (e la Bce) spingono per rafforzare la funzione esecutiva, di coordinamento e controllo. Si sta pensando a una Commissione europea più forte, magari con il presidente eletto dal Parlamento europeo? C’è da dubitarne. Ancora una volta, più per la spinta dei fatti che per spirito riformatore, la Germania e i suoi alleati cercheranno di costituzionalizzare il ruolo guida assunto negli ultimi anni dal Consiglio europeo, formato dai capi di Stato e di governo. Ma a quel punto si aprirebbe una rischiosa contraddizione. Nella storia dell’Europa i principi «orizzontali», cioè come dare voce ai cittadini, sono stati fondamentali. L’europarlamento è via via cresciuto e appare l’unica istanza in grado di assimilare per via democratica la domanda di rappresentatività  che sta crescendo in modo tumultuoso e talvolta in forme inedite nelle società  europee (dai «pirati» tedeschi ai grillini italiani). Inoltre il piano di tagli imposto da Berlino alla Grecia ha diviso ancora di più un Paese già  minato da profonde diseguaglianze. E segnali simili arrivano da Spagna, Portogallo e anche Italia e Francia. Negli ultimi mesi l’emergenza ha imposto la sospensione del confronto-scontro tra diversi blocchi e interessi sociali. Ora, specie dopo la vittoria del socialista Hollande in Francia, bisogna capire se la politica sia pronta a uscire dall’anestesia. Se sarà  così la gabbia politico-istituzionale, rigorista e verticale, progettata da Angela Merkel potrebbe risultare inadeguata.


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