Tra rivolta e restaurazione

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La condanna all’ergastolo di Hosni Mubarak è una tappa non trascurabile della “primavera” egiziana. Rivela l’ambiguità  del corso politico cominciato un anno e mezzo fa con l’insurrezione di piazza Tahrir. Corso politico tutt’altro che spento, nonostante l’opacità  e i numerosi e affrettati verdetti annuncianti la sua fine. Una rivoluzione chiede tempo, alterna ritmi violenti e ritmi riformatori, oscilla tra rivolta e restaurazione. Quella egiziana è in mezzo al guado. Coloro che l’hanno promossa appaiono emarginati e il confronto è adesso tra gli islamisti e i militari. Due forze che per la loro natura non esprimono certo il progresso, ma che per la loro altrettanto naturale reciproca avversione alimentano un clima d’incertezza. Un clima appunto rivelatore: i giochi non sono fatti. 
Ha torto chi denuncia la condanna di Hosni Mubarak come una pura farsa perché il tribunale non ha accolto la richiesta dell’accusa (che reclamava la morte per impiccagione), non ritenendo l’ex rais responsabile diretto dei massacri di 840 manifestanti disarmati, ma soltanto di non avere poi fermato quei massacri. A nostro avviso l’avere evitato la pena capitale resta comunque un fatto positivo. Essa non rientra infatti nei nostri principi. Scandalosa appare invece la prescrizione riconosciuta ai figli del rais, Gamal e Alaa, per il reato di corruzione. Il conseguente rilascio degli imputati, e dei loro complici, se non intervengono altre imputazioni, suona come una beffa per coloro che, spesso rischiando la vita, hanno chiesto giustizia per il saccheggio finanziario ed economico attuato impunemente dal clan familiare per trent’anni alla testa dello Stato. 
Chi denuncia la farsa ha buone ragioni perché la credibilità  del processo era compromessa fin dall’inizio. Esso si è infatti svolto mentre era ed è al potere la giunta militare, composta da generali un tempo, e per decenni, agli ordini di Hosni Mubarak, e fino alla sua destituzione spesso complici. Il tribunale ha inoltre operato nel rispetto di leggi e regolamenti militari, e nell’assenza di una vera Costituzione. L’indipendenza dei giudici non è mai risultata chiara, anche se il presidente del tribunale, Ahmed Rafaa, ha definito i trent’anni in cui Hosni Mubarak ha esercitato il potere un periodo «di intensa oscurità ». Ha esclamatocon enfasi: «Buio, buio, buio, il buio di una fredda notte d’inverno». 
La società  militare, al potere in Egitto dal 1952, da quando la monarchia è stata abolita dagli “ufficiali liberi” guidati da Naguib e da Nasser, ha in parte assecondato le richieste di piazza Tahrir, ma non ha ancora rinunciato alle prerogative economiche, politiche e giudiziarie. Essa controlla il trenta per cento dell’attività  economica egiziana (ospedali, scuole, raffinerie, fabbriche di frigoriferi, fattorie…); ha amministrato finora la giustizia attraverso una legge d’emergenza; non rivela il suo bilancio; si considera al di sopra della Costituzione (che per il momento non c’è). È stata costretta a processare Mubarak. Ne avrebbe volentieri fatto a meno. Era un po’ come trascinare se stessa davanti ai giudici. Mubarak era una sua espressione, sia pure deviata, deformata, inquinata dagli interessi del clan familiare. Ma come erano stati costretti a destituirlo, nel febbraio 2011, per placare l’insurrezione, i generali del Consiglio superiore delle Forze Armate (CSFA) hanno poi dovuto processarlo.
Non hanno voluto tuttavia correre il rischio di essere coinvolti. Il capo del CSFA, il generale Tantawi, era un fedelissimo di Hosni Mubarak. Gli deve la sua carriera, come molti altri. Il presidente del Tribunale, Ahmed Raafa, non ha risparmiato le parole per deplorare la condotta dell’ex rais, ma nel guidare il processo si è dovuto muovere con prudenza. Allargarlo ai complici, sia per quel che riguarda la repressione, sia per quel che riguarda la corruzione, avrebbe condotto a coinvolgere non pochi personaggi al vertice della società  militare. Questo non gli era consentito. Ma questo non basta per concludere che il processo è stata una pura farsa.
Il processo del Cairo ha stabilito un precedente che conterà  nel mondo arabo, dove le rivolte non sono finite, e non pochi uomini al potere rischiano di essere destituiti con la forza. La giustizia araba non può più risparmiare i suoi raà­s. Il processo del Cairo è una tappa rilevante della «primavera», è un monito anche per chi come il siriano Assad reprime nel sangue l’insurrezione. È il principio della punizione, della condanna inevitabile, che è stato confermato. Un principio che può tradursi nell’assassinio immediato, nel clima d’odio di una lotta armata, come in Libia fu il caso di Gheddafi. Oppure che può prendere la forma di un processo, nell’ambigua situazione creata da una lotta politica irrisolta.
Hosni Mubarak è stato il secondo raà­s a comparire davanti a un tribunale e ad essere condannato. Non conto il tunisino Ben Ali sfuggito alla giustizia del suo paese riparando nell’Arabia Saudita. Il primo è stato Saddam Hussein nel 2005, due anni dopo la sua cacciata dal potere. L’impiccagione del dittatore iracheno ha sollevato polemiche per la spicciativa esecuzione e ha suscitato forti risentimenti a Bagdad, dove continua ad imperversare il terrorismo. L’84enne Mubarak ha salvato la vita ma dovrà  affrontare altri processi. In parte determinati anche dalla svolta che prenderà  la non ancora conclusa «primavera» egiziana. 
I generali del Consiglio superiore delle Forze armate che dirigono la transizione, tra la fine del regime Mubarak e l’imminente elezione del presidente della Repubblica, hanno trattato con molto riguardo l’ex raà­s. Egli è apparso in tribunale steso su una barella, come in preda a gravi malattie. Si è detto un cancro, oppure seri problemi cardiaci. Per questo ha trascorso la detenzione in un ospedale militare, dove pero’ vari controlli medici non l’hanno trovato in cattive condizioni di salute. Al punto che voci insistenti nella società  ben informata del Cairo lo davano intento a nuotare nella piscina dell’ospedale o attavolato davanti alle pietanze che la moglie gli portava ogni giorno, per evitargli di dipendere dal vitto dei ricoverati comuni. 
Quando, dopo la sentenza, un elicottero l’ha portato nel cortile di una prigione, dove l’attendeva un letto nell’infermeria, l’ex raà­s si è rifiutato di scendere, e ha resistito per una buona mezz’ora. Si è parlato anche di una crisi cardiaca. 
Queste indiscrezioni, più o meno fondate, alimentano l’idea di una società  militare costretta a destituire e a processare l’uomo che è stato per trent’anni il suo capo, ma al di là  del rigore di facciata solidale con lui. La prescrizione accordata per il pesante reato di corruzione ne sarebbe la prova concreta. Gli effetti della rivolta di piazza Tahrir non si sono tuttavia dissolti. I generali hanno dovuto indire elezioni politiche dalle quali è uscito un Parlamento a maggioranza islamica che può sfuggire al loro controllo. E nelle successive elezioni presidenziali sono arrivati in testa Mohammed Morsi, un fratello musulmano, e Ahmed Shafik, uomo dei militari e un tempo primo ministro di Mubarak. 
Se al ballottaggio uscirà  vincente Shafik, l’ex raà­s potrà  contare sulla sua clemenza. Anzi sulla sua solidarietà , poiché Shafik non ha nascosto, di recente, durante una riunione all’American Chamber del Cairo, l’ammirazione per l’ex presidente nel frattempo condannato all’ergastolo. E non ha neppure escluso di prendere come vice presidente Omar Suleimann, che già  ricoprì la carica con Mubarak e che è stato soprattutto per anni il capo dei servizi di spionaggio. Shafik si è detto altresì deciso a difendere il ruolo dei militari in quanto «guardiani della legittimità  costituzionale». 
Si potrebbe quasi concludere che Hosni Mubarak potrà  contare su un’assoluzione nel processo d’appello, se il candidato dei militari vincerà  l’elezione presidenziale. Nel caso il fratello musulmano dovesse invece prevalere, e diventare il primo capo dello Stato democraticamente eletto, il destino di Mubarak e del paese potrebbe rivelarsi diverso. Ma quel che resta incerto è l’atteggiamento dell’esercito dopo il risultato del ballottaggio di metà  giugno. I generali saranno disposti a passare le consegne, come hanno promesso, al presidente eletto? E quali saranno i poteri di quest’ultimo non essendoci ancora una Costituzione? E ancora, in che condizioni lavorerà  la Commissione costituente incaricata di redigere la magna charta? Ecco perché, al di là  del valore di principio, la sentenza che ha condannato all’ergastolo l’ex raà­s riflette per la sua ambiguità  quel che è, al momento, il corso politico cominciato con la rivolta di piazza Tahrir.


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