Una visione alta, ma non diversa

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Bisogna saper stare all’altezza dei problemi, anche se la vertigine è a un passo dal prenderci. Bisogna capire e fare, non fuggire tornando a ciò che si conosce, al rassicurante piccolo mondo antico che non c’è più. E questo vale sia per chi – come il governatore della Banca d’Italia – dentro la realtà  del mondo si muove per migliorarne l’efficienza, che per quanti, al contrario, si interrogano sui limiti, sulla caducità  di questo «sistema», cercando di individuare i contorni del suo possibile esperimento.

La prima volta di Ignazio Visco in sede di presentazione delle «Considerazioni finali», da governatore, restituisce intanto questo invito a «mettersi all’altezza», fissando l’ostacolai sotto la quale non si «compete», ma si bofonchia. E viene da pensare che la scuola di Federico Caffè, scomparso 25 anni fa, rappresenta tuttora un esempio inegualiato di «eccellenza» scientifica (da lì sono usciti sia Visco che Mario Draghi; e tanti altri, anche tra «i nostri»). 
Le Considerazioni hanno una struttura istituzionalizzata che per una volta ci sembra non utile rispettare. Il punto più alto è rappresentato infatti dal discorso sull’Europa, che nell’esposizione non è il primo.
L’Europa e l’Italia
L’eurozona, come «entità  unitaria», sarebbe un colosso molto equilibrato: «ha conti con l’estero bilanciati, un disavanzo e un debito del settore pubblico poco sopra i limiti (3 e 90% del Pil); famiglie con una ricchezza finanziaria lorda 3 volte il reddito annuo disponibile, un debito delle imprese pari al prodotto di un anno». Ma è al centro dell’offensiva della «speculazione internazionale» per un solo motivo sistemico: «si avverte la mancanza di fondamentali caratteristiche di una federazione di Stati». C’è un mercato e una moneta unici, non c’è un potere politico centralizzato (e legittimato; ma questo Visco non può nemmeno lasciarlo pensare). I paesi più deboli, dunque, sono aggredibili come parti isolate da un tutto altrimenti potente.
Quei fondamentali sono ovvi: «processi decisionali che favoriscano l’adozione di politiche lungimirante», «risorse pubbliche comuni», «regole davvero condivise e azioni tempestive su sistema finanziario e banche». Prevale invece una «pericolosa tendenza alla rinazionalizzazione dei sistemi finanziari», che crea un doppio regime interno. «Questo rende alla lunga l’unione monetaria più difficile da sostenere».
Visco riconosce i tentativi fatti per «rafforzare la governance», ma «i processi decisionali» restano «condizionati dal metodo intergovernativo e dal principio dell’unanimità », che rende ogni scelta «lenta e farraginosa». E la Bce non può sostituirsi (troppo a lungo o troppo a fondo) alle istituzioni politiche. L’auspicato «cambio di passo» non si vede e quindi gli spread tra i rendimenti dei titoli dei diversi paesi possono divaricarsi in modo non corrispondente alla realtà  davvero «unitaria» – sul piano dell’integrazione economica – della Ue. Al punto che gli spread «non sembrano tener conto di quanto è stato fatto», sia a livello comunitario che dei singoli paesi. Del resto, al centro della crisi vi sono i «dubbi crescenti degli investitori internazionali» su problemi più politici che economici, come «la coesione dei governi nell’orientare la riforma della governance europea». La «tenuta stessa dell’Unione monetaria» è in mano alla «politica», ai «governi», prima che alle istituzioni monetarie. La credibilità  di un insieme malmesso è insomma un problema «non economico».
Il nodo, anche per Visco, è la «crescita che stenta». I suggerimenti, però, non vanno oltre «l’avvio immediato di progetti comuni e cofinanziati di investimento». Perché è vero che «sta ai paesi in difficoltà  attuare le riforme strutturali», ma «sta ai paesi più forti aiutare questo processo, non ostacolando il riequilibrio». Un fendente educato a Bundesbank e fra༠Merkel, probabilmente coordinato con i vertici della Bce.
Economia e politica monetaria
Sia chiaro: quelle «riforme» vengono benedette da via Nazionale, non ci sono incertezze. Il livello di blocco creditizio e produttivo, nello scorso autunno, era tale che «le condizioni per rinnovare il debito nei mesi invernali rischiavano di diventare proibitive». E quindi «dovevano» essere avviate sia le «incisive correzioni dei debiti pubblici» che le «riforme strutturali per la crescita». Su questo il nostro dissenso non può che restare radicale, perché non c’è nulla di «oggettivo» e «obbligato» nel modo di reperire risorse; anche il liberalissimo Einaudi, del resto, non avrebbea avuto problemi nel varare una «patrimoniale». Anziché strangolare i redditi più bassi.
E cancellare l’articolo 18 non produrrà  un solo centesimo di Pil in più. Anzi, comprimendo di fatto salari e quindi i consumi (soprattutto quelli «necessari»), probabilmente contribuirà  a ridurlo anche oltre quell’1,5% – per il 2012 – che anche Visco riconosce. Vuol dire recessione, per almeno altri tre trimestri oltre i tre già  messi in cascina.
Banche e sistema finanziario
La crisi rischiava di accentuare oltre misura la «segmentazione del mercato interbancario lungo linee nazionali», anticipando e sollecitando risposte «populiste» nella stessa direzione. È stata tamponata quasi soltanto dalla Bce, prima con gli acquisti irrituali di titoli di stato dei paesi in difficoltà  e poi con due maxi-operazioni di rifinanziamento che hanno portato 1.000 miliardi nelle casse della banche private. L’effetto è stato positivo, dice Visco, perché ha stabilizzato le attese dei mercati, per un po’. Ma ora «le tensioni sono riprese», e le banche rispondono riducendo il credito erogato a imprese e famiglie.
Pesa indirettamente anche la normativa di Basilea 3, che obbliga a requisiti di «riserva» molto più stringenti. La «chiave» per riprendere ad aumentare «le attività » viene quindi vista – anche qui – nella riduzione del «costo del lavoro, difficilmente compatibile con le prospettive di crescita» del sistema bancario.
Riforme e fisco
In definitiva, Bankitalia appoggia esplicitamente sia le scelte del governo Monti che quelle della Bce, perché «era urgente mettere il bilancio pubblico su una dinamica sostenibile» e «rianimare la capacità  di crescita attraverso riforme strutturali». Ma è ormai ora di «rivedere le priorità  di spesa a parità  di saldo di bilancio, ad esempio a favore dell’istruzione e della ricerca». Anche perché «si è pagato il prezzo di un innalzamento della pressione fiscale a livelli non compatibili con una crescita sostenuta». E quindi «la sfida si sposta: occorre trovare, oltre a più ampi recuperi dell’evasione, tagli di spesa che compensino il necessario ridimensionamento del peso fiscale». La «logica tedesca» del rigore ha ormai toccato un limite oltre cui sta diventando un danno evidente. Ma le condizioni di vita della popolazione in tutti questi calcoli, costituiscono solo una variabile ininfluente. Il che non può essere accettato da nessuno.


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