Vita da filosofo contro il regime

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Documento di un’epoca e di un protagonista della cultura e della vita civile italiana, queste Lettere 1919-1942 di Piero Martinetti raccolte e curate da Pier Giorgio Zunino con la collaborazione di Giulia Beltrametti (Olschki) offrono un’occasione importante di accostarci a un personaggio straordinario, uno dei più rari e preziosi maestri italiani di vita e di pensiero che il ‘900 ci abbia regalato. 
Di Piero Martinetti pochi sanno qualcosa di più oltre al fatto dell’essere stato l’unico filosofo universitario italiano che si sia rifiutato di prestare giuramento di fedeltà  al fascismo. Quella scelta che lo fece decadere dalla cattedra dell’università  di Milano fu l’esito naturale di un percorso di ferrea coerenza morale e intellettuale. Per Piero Martinetti l’insegnamento di filosofia teoretica e morale fu l’impegno di una vita. Le lettere permettono di ritrovarne la cifra umana più profonda, quella che si rivelava nei contatti personali: si pensi per esempio al senso doloroso dell’inadeguatezza della propria opera che ogni elogio e apprezzamento stimolava in lui. 
Qui i curatori ricompongono quello che rimane delle sue lettere, pubblicandone molte tuttora inedite, integrando e correggendo sugli originali quelle già  note, indicando le lacune per ora non colmate, precisandone e contestualizzandone le circostanze. Citiamo a titolo d’esempio la lettera del dicembre 1937 a Guido Cagnola, dove Piero Martinetti ragiona sul suo appartarsi dal mondo e prepararsi alla morte come ad un passaggio, una metamorfosi del “principio che vive in noi”. Quanto ingiusta risulta così la polemica clericale sulle sue esequie laiche e sulla scelta di far cremare le sue spoglie, condannata allora come segno di ateismo. Ma quello fu l’epilogo postumo della guerra senza quartiere che oppose Martinetti alle autorità  del regime clericofascista e che conobbe episodi clamorosi. Agli scontri pubblici il filosofo non si sottrasse: non per un protagonismo che gli fu del tutto estraneo, ma per la convinzione che difendendo la sua indipendenza intellettuale, come ebbe a scrivere a Bernardino Varisco, si difendeva in realtà  «uno degli interessi più vitali e più gelosi dello Stato». 
Lo dimostrò nella battaglia intellettuale che lo vide impegnato nella Milano degli anni Venti contro il protervo caposcuola della neoscolastica, il convertito Padre Agostino Gemelli. Nello scontro allora in atto che aveva per posta la religione degli italiani, Gemelli capeggiava la restaurazione di un cattolicesimo di Stato e si confrontava con la religione dello Spirito di Croce e di Gentile ma più ancora con quel solitario professore piemontese formatosi sullo studio di filosofie indiane e che andava pubblicando volumi e saggi su argomenti che il battagliero francescano riteneva monopolio cattolico: la metafisica, le dottrine cristiane, i rapporti fra morale e teologia. Il conflitto esplose in occasione del congresso di filosofia organizzato da Martinetti a Milano nel 1926: un congresso preceduto dalla denunzia di un sicario al rettore e seguito dall’intervento pubblico ostile di Giovanni Gentile e da un telegramma di Mussolini che chiese l’esonero immediato dall’insegnamento del “filosofante”. L’esonero non ci fu. Ma il regime regolò poi i conti con l’imposizione del giuramento di fedeltà  a cui Martinetti si rifiutò: la Chiesa mise all’indice le opere nel 1937. Martinetti reagì alla condanna con una lettera inviata alla Congregazione dell’Indice, un’istituzione che a quella data non esisteva più, poi con una seconda versione della stessa mandata alla direzione dell’Osservatore Romano: questa seconda versione, rintracciata nell’Archivio Vaticano della Congregazione per la dottrina della fede, compare qui per la prima volta e offre a Zunino l’occasione di una precisa messa a punto dei dati documentari e del contesto di tutta la questione. E si può così con migliore conoscenza di causa rileggere questa testimonianza dello stile e dei convincimenti profondi di Martinetti. L’uomo aveva presentato le sue credenziali filosofiche dichiarando fin dal 1909 che, se dopo Kant «nessun filosofo serio può non essere in Etica “kantiano”, dopo il Cristianesimo non è possibile non essere in qualche modo cristiano» (un suggerimento che Croce non dimenticò). Ora, giunto all’appuntamento finale con un’autorità  ecclesiastica vittoriosa e vendicativa, dichiarava di aver scritto contro la Chiesa con un «segreto senso di dolore». In quella Chiesa – così Martinetti – «vi sono tante cose che ammiro e che amo». E si dichiarava pronto a ritrattare le sue accuse se e quando avesse visto il capo di quella Chiesa non benedire più le bandiere di guerre fratricide e vietare «a tutti i fedeli di seguire i comandamenti del demonio». Questo non gli fu dato. Ma la sua testimonianza era destinata a restare. Essa si stacca dal grigiore del chiacchiericcio di religione allora diffuso come la cima solitaria di una grande pianta.


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