Anche i dirigenti ormai hanno accordi a tempo

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MILANO — Barilla inaugurerà  a settembre, vicino a Parma, il nuovo stabilimento dove produrrà  il 75% dei sughi che il gruppo vende nel mondo e per il quale ha assunto 140 persone. Alla bolognese Kerakoll 1.800 neolaureati hanno risposto al progetto lanciato dall’azienda di edilizia (1.370 dipendenti a oggi) per avviare alla carriera internazionale alcune decine di giovani talenti. A Como ha assunto la Ratti, nome storico della seta tornata al profitto dopo anni di perdite, grazie alla nuova gestione Favrin-Marzotto. Mentre continua ad assumere, essendo in crescita, una società  tecnologica come Replay (2.500 dipendenti).
Posti a tempo indeterminato. Non in contrasto con la fotografia scattata da Unioncamere. Semmai la convinzione, come dicono in Barilla, che «pur nel momento così difficile, c’è fiducia nell’Italia».
Perché assumere senza già  mettere una data di chiusura del contratto di lavoro non è facile. E quello che pesa non sono tanto le regole del mercato del lavoro, quanto l’incertezza, non sapere oggi cosa succederà  domani nel business. «Quando ho iniziato a lavorare, il portafoglio ordini era a un anno, un anno e mezzo. Oggi parliamo di ore», sintetizza Guidalberto Guidi, l’imprenditore di Ducati energia, un migliaio di dipendenti tra l’Italia, l’Argentina, la Croazia, la Romania e l’India.
È questa scarsa visibilità  sul futuro che spinge chi guida le aziende a assumere a tempo determinato. Per provare le persone; per poter prendere commesse brevi ma essenziali per il conto economico; per timore di impegnarsi in qualcosa che non si sa come finirà . 
Una «temporaneità » che tocca tutti i livelli, anche i gradi più alti: sempre più spesso hanno una «scadenza» anche i manager, come conferma Giovanna Brambilla, amministratrice delegata di Value Search: «Vengono assunti a tempo determinato a causa dell’incertezza generale, non perché legati a un determinato progetto. Un fenomeno che riguarda soprattutto le imprese manifatturiere ma che tocca anche le società  tecnologiche».
«Siamo di fronte a una mutazione genetica del sistema manifatturiero — dice Guidi —. È vero, ci sono aziende che vanno bene: sono quelle in cima alla piramide, che dieci anni fa hanno investito in ricerca, hanno “dimenticato” di distribuire dividendi e si sono multilocalizzate. Ma se guardiamo la generalità , non siamo neanche a metà  della crisi».
Eppure questa precarizzazione non fa bene neanche alle imprese. «Nessuno ha interesse ad avere lavoratori precari e non specializzati perché non consentono di fare prodotti di qualità  â€” spiega Pierluigi Loro Piana —. È importante che sia garantita la flessibilità , ma bisogna evitare gli abusi». È per questo motivo che un manager-imprenditore di lungo corso come Antonio Favrin, che guida Ratti, dice che bisogna aspettare prima di dare un giudizio definitivo su quanto sta accadendo. «Questo è un momento particolare, di stanchezza, di cambiamento, di confusione. I fenomeni vanno valutati nel medio-lungo termine, non dobbiamo prendere il punto della curva come un trend e spaventarci: le aziende hanno bisogno di persone stabili».
Aiuterà  la riforma del lavoro? O sarà  un freno? «È difficile dire oggi quali saranno i suoi effetti — risponde Pier Luigi Loro Piana —. Se riuscirà  a ridurre l’abuso delle assunzioni a tempo determinato sarà  positiva, se invece ridurrà  la flessibilità  delle aziende all’ingresso o all’uscita potrebbe non essere valida». Perché, «in generale, ciò di cui abbiamo bisogno è flessibilità  sul lavoro, soprattutto per aiutare le start up e le imprese più piccole ad accelerare la crescita», aggiunge Tatiana Rizzante, amministratrice delegata di Replay. «Non sono entusiasta della riforma — conclude Gian Luca Sghedoni, amministratore delegato di Kerakoll —, che è stata snaturata. Ma più che la riforma, sarà  la congiuntura a far cambiare l’atteggiamento delle aziende».


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