Bambini di strada a Bucarest

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Appoggiati a reti di ferro rugginose e slabbrate. Distesi fra l’erba alta e i calcinacci appuntiti intorno ai palazzoni. Oppure attoniti, sotto le pensiline della stazione, col marciapiede che bolle dopo il sole a picco del giorno. I ragazzi di strada di Bucarest sono lì dagli anni ’90, come un pugno nello stomaco, l’emblema delle contraddizioni che scuotono la Romania e l’Unione Europea. Negli ultimi tre decenni quasi nulla è cambiato, se non che i ragazzini di strada del dopo Ceausescu oggi sono cresciuti e hanno fatto dei figli che a loro volta vivono come barboni e sono, in altre parole, «bambini di strada di seconda generazione».
«Oggi, nella Romania post-post comunista la forbice sociale fra chi ha molto e chi non ha niente continua a crescere. Come ogni società  in fase di sviluppo, gli squilibri si moltiplicano. Questi ragazzi arrivano dalle famiglie più colpite dal disagio. Non sono solo a Bucarest, il loro numero cresce anche in altre città  della Romania toccate dalla crescita economica» spiega Franco Aloisio, presidente della ong Parada, punto di riferimento per gli emarginati della Romania. «Oggi il pericolo peggiore è l’indifferenza. La gente si sta abituando alla presenza dei ragazzi perduti, sempre più invisibili agli occhi dei passanti. Dopo tanti anni e come se stessero diventando parte del paesaggio urbano». 
Finiscono in strada i ragazzi che fuggono da famiglie difficili e traumatizzanti, oppure quelli che scappano dagli Istituti. L’economia rumena negli ultimi anni ha galoppato a tassi di crescita del 15%, uno sviluppo impetuosa che ha generato anche sfruttamento e esclusioni. A Bucarest, nello scorso decennio, i bambini di strada si accampavano fin sotto al Palazzo della Repubblica, nel cuore della città . Oggi la loro presenza è più puntiforme. 
Vivono divisi in piccoli gruppi sparsi in tutta la città . Si calcola siano intorno ai 1500. «La loro presenza s’è sparpagliata, è divenuta più capillare. Con la nostra unità  mobile abbiamo triplicato il numero dei chilometri da percorrere per assisterli» spiega Ionut Jugureanu dell’associazione Parada, mentre porta col suo furgone un pasto caldo a quattro gruppi di clochard giovanissimi, persi fra la periferia e il centro, accampati ora che è estate sulle aiuole spelacchiate che fanno da spartitraffico, negli androni dei palazzi. Nel back stage di Bucarest. Intorno alla stazione Nord o nella centrale zona universitaria.
D’inverno i bambini di strada tornano nel sottosuolo, si rifugiano nelle stanze sotterranee progettate per la manutenzione dei canali del riscaldamento centralizzato di Bucarest. Qui dormono aggrappati alle tubature, per combattere il freddo. Qualche anno fa la droga era la colla da sniffare. Oggi è esploso il consumo d’eroina. Un grammo, tagliato con sostanze pessime, a Bucarest si trova per 16 euro. Ci sono poi le nuove droghe sintetiche. Si vendono legalmente perché vengono utilizzate nei sali da bagno. Inalate, frastornano fino alla allucinazione e al delirio.
Dopo anni di consumo, molti di questi ragazzi hanno ormai danni celebrali evidenti. Passano le giornate a raccogliere materiali riciclabili, per aver in cambio dal Comune qualche spicciolo con cui nutrire la propria dipendenza. Altri si prostituiscono. La sieropositività  dilaga. «Registriamo almeno dieci nuovi casi di HIV alla settimana fra i tossicodipendenti», spiega Monica Dan, coordinatrice di Aras, ong impegnata nella lotta all’Aids. Tre sere alla settimana anche Aras gira per Bucarest con la sua unità  mobile coordinandosi spesso con il servizio di strada di Parada. 
Le ong sono l’unica presenza sul campo. Gli assistenti sociali rumeni latitano, soprattutto dopo i pesanti tagli alla spesa pubblica imposti dal Governo, che hanno tolto risorse anche all’associazionismo. L’unità  mobile di Aras porta ai ragazzi e alle ragazze preservativi e siringhe nuove, raccoglie quelle usate. Esamina sintomi di malattie sessuali. 
Alla Gara de Nord, la stazione di Bucarest, la calca è pressante all’arrivo della loro ambulanza. I ragazzi sono in fila per avere assistenza. Arrivano a decine. Vivono accampati negli interstizi intorno alla stazione. Molti di loro sono i figli dei rom che Ceausescu, negli anni ’70, ha voluto trapiantare a Bucarest, nel tentativo – fallito – di sedentarizzarli e integrarli. 
Bucur, uno di loro, è in strada da quando è un bambino. Oggi non è più autosufficiente, la droga gli ha lesionato il cervello. Ha il collo coperto di ustioni. Ada, la ragazza che coordina l’unità  mobile di Aras, racconta: «Era inverno, e una notte Bucur è arrivato qui da noi. Si lamentava. Si è tirato su il maglione ed era pieno di ustioni e piaghe. È successo che dormiva vicino a una tubatura del riscaldamento, in una delle stanze sotterranee dove i ragazzi si rifugiano col freddo. Ma la conduttura è esplosa e lui è rimasto ustionato. È un incidente che capita a molti d’inverno, perché le condutture sono vecchissime. Lo abbiamo portato in ospedale. Ho avuto gli incubi per un mese, sognavo le sue ferite».
Ma i ragazzi di strada sono solo la punta dell’iceberg. Il volto più esposto e sconvolto del post-post-comunismo e del turbo capitalismo fallito. Dietro di loro c’è un altro esercito invisibile di ragazzi abbandonati. Sono 70mila, secondo i dati forniti dal governo rumeno e alloggiano negli istituti per i senza famiglia di tutta la Romania. 
Ci sono poi i bambini disabili, che vivono in strutture lager impossibili da visitare. Sono soprattutto rom, gruppo etnico che, spiegano gli studi dell’Unicef, ha risentito di più della crisi economica arrivata nel 2009. «La cultura dell’abbandono è ancora forte in questo paese. Se si esaminano le cifre, il numero di chi vive in istituto non è cambiato dal censimento del 1997. Negli ultimi decenni lo Stato ha puntato molto sulla protezione maternale. I ragazzi dagli orfanotrofi sono stati spostati in famiglie che li ospitano in cambio di un sussidio» spiega Lidia Dobre, dell’associazione Inima pentru Inima (che in rumeno significa «cuore a cuore»).
A Brasov, città  ai confini con la Transilvania, Lidia cura dei progetti nell’Istituto Ghimbau, dove risiedono bambini con condanne penali. Qualcuno di loro è già  omicida, altri hanno commesso stupri. Il numero di abbandoni nella regione è uno dei più alti della Romania. Nel reparto ostetrico di Brasov ogni mese vengono lasciati dalle madri dieci neonati, senza essere riconosciuti. «I motivi sono tanti. Alcune famiglie hanno problemi economici. Ci sono madri giovanissime e gravidanze nate da rapporti irregolari o, a volte, da incesti». 
Con alcuni psicologi e assistenti sociali, Lidia Dobre fa prevenzione in ospedale per convincere le mamme a non staccarsi dai propri figli. «Durante gli anni di Ceausescu i genitori erano invogliati, quasi spinti, ad affidare la propria prole agli istituti, che allora erano di buon livello. La dittatura sognava di crescere i bambini fuori dalla famiglia, per creare l’uomo nuovo, il cittadino perfetto», racconta Lidia. 
Budila è il nome di un villaggio rom nei dintorni di Brasov. È da centri rurali come questi che oggi arrivano molti dei bambini abbandonati. A Budila le scritte sono sia in rumeno che in ungherese, lingua familiare ai gabori, il gruppo rom di questa zona. Le case sono baracche di fango e le acque nere scorrono sulle strade. Gli uomini sono fermi sugli usci delle case a chiacchierare. Chi ha venti anni ne dimostra quaranta. Chi ne ha quaranta, sessanta. 
Ogni ragazza è circondata da un gruppetto di sette, dieci bambini. Tutti figli suoi. L’associazione di Lidia Dobre viene a Budila per fare prevenzione contro l’abbandono. Visitiamo la casa di una delle donne convinte dalla sua associazione a riprendersi il figlioletto abbandonato in ospedale. È una baracca di quattro pareti di fango e paglia, di pochi metri quadri, senza riscaldamento, gas o luce. Ferma a due secoli fa, dove vivono in dieci.
Ci sono altri bambini e giovanissimi che finiscono risucchiati nel grande buco dell’abbandono e sono destinati a crescere negli istituti, oppure in strada fra droga e abusi. Sono gli «orfani bianchi», ovvero i figli di emigrati. Sono centinaia di migliaia. L’Unicef e altre ong parlano di 350mila minori, le autorità  di 150mila, e almeno la metà  ha entrambi i genitori lontani. Vivono coi nonni, con fratelli maggiori o i parenti. Il numero degli orfani bianchi è nutrito soprattutto nella zona della Moldavia, dove l’emigrazione è più forte. Sono sempre più numerosi, fra loro, i casi di depressione cronica. Si moltiplicano anche i suicidi. 
E l’Italia è interrogata da vicino dal loro dramma, perché il 40% della emigrazione rumena è diretta proprio nel nostro paese. In Italia sta per partire un progetto, coordinato anche da Parada dal nome «La mamma ti vuole bene», grazie al quale si darà  la possibilità  a gruppi di genitori rumeni di parlare coi propri figli in Romania tramite skype, in incontri organizzati nelle biblioteche comunali.


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