Banche tra tagli, chiusure e nuovi mestieri da Intesa a Bpm: “Dobbiamo cambiare pelle”
Ma anche banche più “tipiche” quanto a natura, statuto e gestione, sono alle prese con le stesse esigenze. Con crescente applicazione nell’ultimo semestre Unicredit, Intesa Sanpaolo, Monte dei Paschi, Ubi Banca ma anche istituti più piccoli – si veda la tabella – sfogliano il campionario delle misure restrittive. Tagli di personale già a migliaia, e che i
sindacati di settore temono per altri 15mila; riduzione di funzioni e poltrone di rappresentanza, spesso pletoriche; semplificazioni di governance, reti e organizzazioni sul territorio; cessione o chiusura di attività improduttive o in rosso. L’ad di Mps Fabrizio Viola è arrivato a dire, presentando il piano di riassetto della banca, che di questi tempi è più conveniente chiudere un’agenzia che venderla. Anche perché compratori non ce ne sono. Le chiusure difatti fioccano a centinaia: Poste Italiane si è adeguata, e sta per chiudere 1.000 uffici. La direzione di marcia è ribadita dal rapporto Abi-Afo, uscito ieri: «I conti economici resteranno insoddisfacenti: anche se i ricavi ripartiranno, spinti dapprima dal margine di interesse e poi dai ricavi da servizi e finanziari, il recupero non risulterebbe in grado di coprire anni di perdite di reddito. Di conseguenza resta decisivo lo sforzo di contenimento dei costi ». Del resto la redditività del capitale nel sistema bancario italico è impietosamente misurata in un 1,2% (Roe al 2012), e vista salire lentamente a un misero 3,2% tra due anni. In Bpm, l’ultima a muovere tra le banche grandi e medie, su poco più di 8mila dipendenti 2.000-2.300 cambieranno mansione: una “riqualificazione” che li vedrà migrare nei call center, nel segmento specialisti prodotto, nella rete di sviluppatori; in una parola nel commerciale, per migliorare una situazione definita da Montani «altamente inefficiente ». Toccherà anche ai dirigenti, che verranno ridotti di un quarto; complessivamente gli esuberi saranno 700 (accompagnati all’esodo con una spesa di 180-200 milioni) e di tutto si parlerà con i sindacati da oggi. Non è detto che il dialogo sia pacifico, come dimostrano i recenti scioperi
in Unicredit, Intesa Sanpaolo, Mps. Ma i banchiere non trovano alternative: «Se il piano di rilancio non dovesse funzionare siamo rovinati», ha detto Montani, scherzando solo un po’.
Il riassetto Bpm prevede a regime, nel 2015, un patrimonio Core tier 1 al 9% (dall’8% attuale) mentre già dal prossimo anno dovrebbero essere rimborsati i Tremonti bond: senza aver bisogno di finanziarsi altrimenti ma a patto che nel frattempo la Banca d’Italia tolga gli “add on” (i super accantonamenti a fronte di impieghi) imposti a seguito dell’ultima, critica ispezione. Altri obiettivi del piano, che vedrà tra l’altro la chiusura o l’accorpamento di una trentina di filiali che non hanno massa critica, sono la realizzazione di una banca commerciale unica tramite la fusione della Banca di Legnano (oggi una spa) in Bpm, e l’accorciamento delle catene decisionali. L’obiettivo, ovunque, è ridurre poltrone e passaggi. Magari anche ripensando il sistema duale: «La governance non è un problema che ci siamo posti in questo momento ha chiosato Bonomi – ma nel medio termine, lo stesso consiglio di sorveglianza si sta ponendo domande sull’assetto migliore». In futuro potrebbero esserci novità anche sul modello del doppio consiglio, che a qualche anno dall’introduzione si conferma più che altro un metodo sclerotico e cencelliano di condividere deleghe poltrone e gettoni in diverse banche italiane.
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