Confindustria Il partito degli imprenditori in cerca di una leadership

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Nel maggio 1919 L’Avanti!, quello vero, non il fogliaccio del faccendiere Valter Lavitola che è servito per drenare denaro pubblico e favorire consulenze e tangenti Finmeccanica, pubblicava un editoriale nel quale si accusava la classe dirigente imprenditoriale italiana di incapacità  nell’interpretare i propri veri interessi, camminando lungo scorciatoie “melmose”. L’articolo era siglato A. G., cioè Antonio Gramsci. La citazione è dovuta a Guido Carli, che così nel 1976 concluse, come narra nel suo libro postumo, il suo primo discorso da presidente dell’assemblea della Confindustria. L’ex governatore della Banca d’Italia, nemico della programmazione e del compromesso storico in politica, che invocava Gramsci nel suo discorso d’insediamento, potrebbe indurre a qualche ingenuo e altamente indebito parallelo con il neo presidente degli imprenditori Giorgio Squinzi, che nel giro di poche settimane, tradendo il senso banalmente di maniera del discorso d’insediamento al vertice degli imprenditori di fine maggio, abbia ribaltato, in men che non si dica, con espressioni da bar (“boiata”, ”macelleria sociale”) la ondivaga weltanschsauung
confindustriale: prima berlusconismo oltre ogni ragionevole limite, poi berlusconismo handicappato, infine Montismo con riserva (vedi la ultima Margegaglia) e infine antimontismo da bar.
Niente di più falsamente semplicistico. Gramsci aveva capito il capitalismo italiano, come a giudizio di Carli lo avevano capito Maffeo Panteleoni e Donato Menichella. Gli imprenditori italiani non avevano e non hanno tuttora il coraggio di affrontare il confronto con la competizione internazionale, si proteggono dietro le coltri delle commesse statali, quando i sindacati chiedono, tendono a concedere a piene mani onde poi rifarsi sui prezzi. Figurarsi poi se Carli voleva ammiccare al Pci. che stava per assumere responsabilità  di governo nei governi di solidarietà  nazionale.
Molti lustri sono passati da allora. Quel che resta dell’ala nobile (?) del capitalismo italiano veleggia su Detroit e su misteriosi affari forse più lucrosi, senza saperci spiegare perché in Italia non si può produrre una buona Audi o una Bmw, invece che un clone di una vecchia gloria americana, che ormai farebbe sorricome
dere anche Clint Eastwood nella sua Detroit con la sua “Gran Torino”.
Ma il buon Squinzi, ottimo imprenditore, queste cose non le maneggia e chissà  se qualcuno è in grado di spiegargliele non con linguaggio da bar sport, pur se in modo comprensibile, anche al suo (se c’é) spin doctor, in modo da trovare magari una via di mezzo tra il
dead man walking
dell’assemblea d’insediamento confindustriale e il bravo chimico da briscola delle successive esternazioni (che poi ha provato ad attenuare).
Sapete che c’è? La “Casta” tradizionale,
quella partitica genialmente inventata da Rizzo e Stella e che ormai ha fatto il suo tempo, non è più una Casta, è un Sistema (vedi le intercettazioni dell’ex capo dello Ior Ettore Gotti Tedeschi al telefono con il suo amico della Finmeccanica Giuseppe Orsi). Ma se qualcosa resta che somiglia a un partito, questo è proprio la Confindustria, con le sue correnti, i suoi scontri, le sue cordate d’interessi, che più vari non potrebbero essere. Tra piccoli e grandi, pubblici e privati, impositori e vittime di tariffe, semimonopolisti e monopolisti naturali. Un ben strano partito, deve ora aver capito Squinzi, se qualcuno gli ha sottoposto qualcosa di Max Weber: «Un partito politico è un’associazione rivolta a un filone deliberato, sia esso oggettivo come l’attuazione di un programma avente scopi materiali o ideali, sia personale, cioè a ottenere benefici, potenza e pertanto onore per i capi e i seguaci, oppure rivolto a tutti questi scopi insieme». Che la Confindustria di Squinzi della Boiata possegga ancora soltanto una vaga idea della sua missione, magari en attendant Montezemolo o altri coraggiosi fuori tempo? Cinquant’anni fa Ernesto Rossi nel suobI Padroni del Vapore citava Felice Guarnieri, come ha ricordato Filippo Astone nel suo Il partito dei padroni, il direttore dei Servizi economici della Confindustria negli Anni Trenta. che così descriveva le caratteristiche dell’industriale italiano: «La natura egocentrica, lo scarso senso del collettivo, che lo porta a sottovalutare e a misconoscere gli interessi di carattere generale e ad accogliere con sopportazione, se non addirittura con insofferenza e dispetto, tutto quanto viene da Roma e stabilire limiti alla sua libertà  d’azione: tutta, insomma, una mentalità  che lo porta a vedere ogni cosa esclusivamente sotto l’angolo visuale del suo particolare, e a praticare, in ogni caso, per la propria azienda, la politica del sacro egoismo». Oggi è vero che siamo tutti nella stessa barca, ma la classe dirigente, a cominciare dai boss confindustriali, non soffrono i disagi di chi vive e lavora nella stiva. Chi potrebbe negare ciò che Squinzi ha cercato di dire con un linguaggio che pensava potesse umanizzarlo e magari portarlo al centro di quel villaggio mediatico per il quale non sembra proprio tagliato?
Ma chi ha detto poi che quel ruolo debba umanizzarsi con la “macelleria sociale”, espressione di origine sindacale che tuttavia fu mutuata, se mal non ricordiamo e con qualche lacrimuccia in meno rispetto alla ministra Fornero, dal ministro Lamberto Dini, quando firmò la prima riforma delle pensioni?
Correva mezzo secolo fa quando Ernesto Rossi scrisse: «Da parecchie parti si muovono ai Grandi Baroni della nostra industria
e dalla nostra finanza, pesanti accuse: nessun senso di solidarietà  nei confronti dei loro connazionali». Ci voleva Squinzi per un restauro che, tutto sommato, non gli spetta?


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