Giulio Paolini e il fantasma della bellezza

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TORINO – Era nelle cose: questa serie sulla bellezza non poteva che concludersi con l’incontro con un artista. E la scelta è caduta su Giulio Paolini: per svariate ragioni. È famoso ma da tempo vive appartato, dunque il suo giudizio sul panorama circostante risulta tanto libero, quanto tagliente. La dimensione riflessiva ha sempre avuto in lui un rilievo analogo a quello della pura espressività  artistica, non foss’altro in quanto esponente di punta dell’“arte concettuale”. Anche se poi, a ben vedere, il suo lavoro esorbita da questa etichetta. Sì che a ragione lo si potrebbe definire anche artista metafisico, platonico, labirintico, teatrale. O “tautologico”, come scrisse Italo Calvino in un bellissimo saggio del 1975: «Tutto il lavoro del nostro pittore parte dal presupposto che la pittura sia un tutto compiuto e definitivo, un edificio a cui egli non pretende di aggiungere nulla. In un’epoca in cui è facile fare gli iconoclasti, egli si contraddistingue per il rispetto che porta alla pittura, per la fedeltà  al mestiere di pittore nei suoi più umili elementi, per la modestia e insieme per la sicurezza con cui allinea nuove opere nel margine strettissimo che resta a un’attività  creativa ridotta all’analisi di se stessa».
Da quel saggio sono trascorsi trentasette anni, eppure le parole di Calvino si attagliano perfettamente anche all’oggi. Perché l’opera di Paolini è una sorta di ininterrotta variazione musicale attorno allo stesso tema: come si può catturare un’immagine che, nella sua costitutiva virtualità , sia rivolta per l’appunto alla ricerca della bellezza?
«Proprio ieri mi è capitato di leggere un’affermazione dello storico dell’arte tedesco Johann Joachim Winckelmann, che nell’arte italiana scorgeva una “bellezza impassibile”. Oggi questa considerazione riferita all’arte classica non ci basta più, salvo volersi abbandonare al rimpianto nostalgico. Io penso alla bellezza come a una figura di cui non riusciamo a riconoscere i lineamenti e che sta collocata su una soglia, un confine, una frontiera: percepiamo che quella soglia è abitata, ma non riusciamo a sapere da chi, da quale immagine. Al di qua di quella linea di confine la nostra idea di bellezza si fonda inevitabilmente su quella tradizione di cui parlava Winckelmann, quindi sul passato. Mentre al di là  della soglia esistono soltanto ipotesi, visioni, prospettive».
Quanto lei dice sembra avere tratti “romantici”. Si riconosce nella celebre affermazione di Keats: «Bellezza è verità , verità  è bellezza»?
«Preferirei sottoscrivere quella, non meno nota, di Albrecht Dà¼rer: “Cosa sia la bellezza non so”… La bellezza appare in controluce: le attribuiamo i lineamenti che i nostri occhi sono stati educati a vedere “dal vero”, ma che, di fatto, non le appartengono. E quindi non bastano a configurarla, a darle un volto. Da qui la nostra perenne ricerca, che secondo alcuni sarebbe il privilegio degli esseri umani, mentre secondo altri, ai quali mi unisco, rappresenta piuttosto la nostra maledizione. Perché a differenza di altre creature, noi non ci accontentiamo di quanto ci tocca “naturalmente”… e ci ritroviamo perennemente sospinti verso un’incognita, in una tensione condannata a restare insoddisfatta
».
Eppure guardando il Lotto, pittore da lei tanto amato, avrà  visto, toccato con mano la bellezza.
«Certamente, ma per quanto disponibile a farmi invadere dalla bellezza, non credo nell’esistenza di un codice che la definisca una volta per tutte. In altri termini,
per quanto mi piacerebbe appropriarmi delle parole di Winckelmann, non riesco più a farle mie. Di sicuro l’obiettivo dell’arte non può essere la natura – già  Oscar Wilde sosteneva che non è l’arte a imitare la natura, ma viceversa – né tantomeno la verità …
».
…Robert Musil sosteneva addirittura che non siamo noi a inseguire la verità , ma è la verità  a inseguire noi.
«Appunto… La verità  è ancor meno consistente della bellezza. Non esiste, è soltanto un’aspirazione, che spero non convinca chi la cerca ad illudersi di trovarla».
L’arte frattanto sembra essersi sottratta dalla scommessa sulla bellezza. Dunque, oggi cosa persegue?
«Qualcosa che non le è proprio: una dimensione di partecipazione, comunicazione e informazione, con risultati nefasti. Per perseguire quegli obiettivi esistono modalità  più congrue: dalla politica all’impegno civile. E invece, prenda Documenta, il sismografo principale dell’arte contemporanea, attualmente in corso a Kassel. Per l’edizione di quest’anno, oltre agli artisti, sono stati invitati anche esponenti del mondo della comunicazione e delle scienze sociali per “dialogare” e partecipare all’abituale parata di valori correnti e effimeri
imposti dalla stringente attualità . È ridicolo, anzi grottesco. Lo si voglia o meno, l’arte non ha questa vocazione a rimboccarsi le maniche e a sedersi intorno a un tavolo. L’arte non si siede intorno a nessun tavolo: sta su un trono o in un angolo,
a seconda dei casi».
In verità  ora pare inginocchiata, come tutti, a pregare l’unica, indiscussa divinità  del nostro tempo: il denaro.
«I criteri riconosciuti e condivisi, che un tempo regolavano il mondo dell’arte, sono
defenestrati, a favore di un sistema che tende a identificare il valore economico con il valore estetico dell’opera. Questa vera e propria degenerazione è figlia della logica intimidatoria del grande numero. Non vorrei assumere le parti del
laudator temporis acti,
ma è un dato di fatto che in passato le vicende dell’arte riguardavano un numero di persone relativamente limitato. Oggi, al contrario, l’arte deve essere per tutti, è diventata una questione di “democrazia” e i musei nascono, come dicono i loro direttori, “allo scopo di accogliere e intrattenere gruppi e famiglie di visitatori per l’intera giornata”. Naturalmente nessuno sputa nel piatto in cui mangia e ciascun artista ha il legittimo desiderio di essere riconosciuto. Ma la vertigine del grande numero ha alterato le cose alla ra-
dice: alla sfera dell’arte vengono attribuiti effetti e poteri che non le appartengono, il riconoscimento del singolo artista si disperde nella confusione dei generi e dei valori, mentre della bellezza non importa più niente a nessuno».
E si perde forse anche un’altra dimensione a cui lei tiene moltissimo, quella del gioco.
«La dimensione del gioco è assolutamente centrale nell’arte: un gioco, beninteso, capace di mettere a rischio la vita stessa. Un gioco che occorre affrontare con spregiudicatezza e sensibilità , sperando in un po’ di fortuna, osservando le regole, e possibilmente evitando di truccare le carte ».
Quelle di Marina Abramovic, contro cui in un suo libro lei ha avuto parole sestati
vere, sono invece carte truccate?
«Non ho niente contro di lei in particolare, la citavo a titolo di esempio. A me sembra che la performance sia gravata da un non so che di abusivo, da una sorta di perorazione del proprio corpo. Tutt’altra cosa invece è il teatro, che ho solo occasionalmente praticato come scenografo, ma a cui faccio continuo riferimento nel mio lavoro. Pur trattandosi di un “qui e ora” che accade ogni volta daccapo, la messinscena teatrale obbedisce a un codice progettuale preciso. È un castello, un sistema di segni, una falsariga guidata da punti fermi di ordine prospettico, che concorrono a generare un certo risultato. La performance, invece, dimostra soltanto se stessa; occupa l’intero spazio visivo in modo piuttosto invadente e categorico. Non possiamo dimenticarci che l’opera d’arte non si identifica mai con l’autore, il quale è semplicemente un intermediario, un “latore” di quella certa cosa chiamata arte e che nessuno, a cominciare dall’artista medesimo, sa bene cosa sia. Osservare le buone regole dell’educazione e del rispetto mi sembra a tutt’oggi un dovere imprescindibile….. Personalmente non ho mai voluto “erogare” niente a nessuno e ho sempre preferito
attendere, cercando cioè di cogliere l’istante favorevole… Ho già  detto in altre occasioni che anni fa ho avuto la fortuna di assistere a un incontro pubblico con Borges, il quale, a chi gli chiedeva come si compone un poema, rispose: “Mi pongo in una situazione passiva e aspetto. Aspetto e la mia unica preoccupazione è che tutto finisca in bellezza”. Ecco, anch’io, da sempre e vanamente, cerco di fare altrettanto». 


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