I giovani pane e farmaci

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NEW YORK. Emily ha 28 anni e non sa più bene chi è. Emily arriva dal Midwest, ha una lavoro da impiegata che la rende felice, una relazione più che serena e tanti, tantissimi amici. Eppure, ogni sera, prima di andare a dormire, mentre si strucca davanti allo specchio, Emily sente quel piccolo brivido correrle ancora lungo la schiena. La colpa, lei lo sa bene, è proprio di uno dei suo amici: il più fidato, quello di più lunga data, l’unico che non l’ha mai tradita, quello che inseparabile la segue da quando aveva 14 anni. Un amico dal nome un po’ buffo ma dalla potenza micidiale. Prozac. Acid-ò, acid-à  / acid-ò, acid-à … Ricordate? Era l’estate di 15 anni fa e il tormentone di quella band dal nome che era tutto un programma, proprio Prozac+, prese in ostaggio l’Italia. Beh, 15 anni sono quasi una generazione e mica è un caso che dall’altra parte del mondo, all’alba dell’anno 2012, il paese più impasticcato del pianeta, cioè gli Stati Uniti d’America, stia cominciando a fare i conti con la pillolina che ci ha cambiato la vita. Non è solo questione di Prozac, Tavor, Xanax e — per i più grandicelli — perfino Viagra. No, non è solo questione di pilloline più o meno potenti e più o meno colorate.
Il fatto è che il boom delle pasticche che fanno sparire la paura, la malattia e la depressione rischia di fare sparire anche quella che i filosofi, prima ancora che gli psicologi e gli psichiatri, chiamano da millenni “coscienza di sé”. Soprattutto nella generazione di chi, come Emily, è nata e cresciuta a pane & pillole.
Qui in America l’hanno già  battezzata la Medication Generation. E i numeri non lasciano nessun dubbio. Il National Center for Health Statistics
dice che il 5 per cento degli americani dai 12 ai 19 anni usano antidepressivi. Aggiungeteci il 6 per cento della stessa fascia d’età  che usa invece farmaci contro il cosiddetto Adhd, il disordine da deficit d’attenzione e iperattività . Mettete che un altro 6 per cento di adulti tra i 18 e i 39 anni prende antidepressivi. E così ci ritroviamo, per la prima volta, davanti a una generazione che non solo si impasticca dall’età  dell’asilo: non sa neppure che cosa vuol dire vivere senza pillola.
«Gli adulti che prendono i farmaci sostengono che la pillola aiuta a tornare a essere quello che erano prima che la depressione oscurasse la loro personalità », scrive sul Wall Street Journal Katherine Sharp. «Ma per gli adolescenti dalla personalità  ancora in formazione il quadro è molto più complesso ». Per chi da sempre convive con la pillola, insomma, «l’assenza di una concezione di sé, precedente al trattamento medico, impedisce di misurare gli effetti della pillola sullo sviluppo della personalità ».
Messa così sembra un incubo da fantascienza. E non è un caso che da Aldous Huxley a Philip Dick la pillola regna incontrastata in tanti racconti. Nel “Mondo Nuovo” proprio le pasticche della fantomatica “Soma” aiutano a ingoiare le vite tutte uguali imposte dal tecnocratico regime. «Tutti i vantaggi della Cristianità  e dell’alcol: e nessuno dei difetti». Così Huxley introduce la pillolina magica che oggi in tanti intravedono come la profetica progenitrice del Prozac, del Paxil o dello Zoloft che ogni giorno settanta milioni di americani mandano giù. Ma Katherine Sharp non è una scrittrice di fantascienza. Il suo “Coming of Age on Zoloft”, l’adolescenza allo Zoloft appunto, è una denuncia in prima persona dei rischi di crescere con gli psicofarmaci. E l’allarme che ha lanciato dal giornale di Wall Street è un campanello per tutti noi. Che fare quindi? Benedetto Vitiello, uno dei più grandi esperti in materia, responsabile della ricerca sull’infanzia al National Institue of Mental Health,
riconosce che il problema è prima di tutto culturale. «Ricordo quando per la prima volta sono sbarcato qui trent’anni fa», dice a Repubblica.
«Ero ospite in casa di un collega, a Philadelphia. Scendo per fare colazione e la moglie, gentilissima, aveva già  apparecchiato per tutti. E accanto a ogni bicchiere, insieme al latte e al succo di frutta, ecco lì la bella pillolina. “E questa?”, ho chiesto preoccupato. “Ma è la vitamina quotidiana”, mi ha risposto lei tranquilla».
Naturalmente — o meglio sarebbe dire artificialmente — su quella strada trent’anni dopo si è avventurato mezzo mondo. Italia e isole comprese. Certo: gli americani ci danno sempre una pista. Il New York Times ha lanciato l’ennesimo allarme per i ragazzini. Sempre loro, quelli della medication generation, si fanno prescrivere gli stimolanti — fingendo si soffrire di Adhd, il deficit d’attenzione — per affrontare meglio i periodi di stress scolastico e presentarsi con più grinta agli esami. Dalla pillola per risolvere un problema alla pillola che già  tra i giovanissimi si trasforma dunque nell’aiutino proibito. Doping. Droga. Ce ne sarebbe abbastanza per gridare allo scandalo. Ma una giornalista d’inchiesta, Kaitlin Bell Barnett, ha scritto un altro libro per invitare a non generalizzare. “
Dosed”, cioè appunto “dosati”, ha un sottotitolo ancora più esplicito, “Così cresce la Medication Generation”, e racconta le storie di cinque ex adolescenti che, come lei, sono cresciuti a pane, pillole e depressione. «Ci sono passata anch’io», racconta ora. «Ma ho voluto indagare meglio proprio perché, leggendo su giornali e blog certe storie, ho scoperto che gli approcci non sempre sono stati positivi come il mio». La parola chiave è “differenza”: «Non tutti rispondiamo allo stesso modo ai farmaci. E le storie personali e i contesti familiari possono fare davvero la differenza».
Ok, ma non sarà  che dietro il proliferare delle pillole si nasconda la longa manus dell’industria farmaceutica? In fondo la medication generation è cresciuta di pari passo con il via libera dei cosiddetti “spot al consumatore”. È solo dal 1996 che negli Usa è permessa la pubblicità  dei farmaci per il fai-da-te dei disturbi mentali, sognanti caroselli dove basta una pillola per sentirti subito meglio: e chi vuoi che poi — malgrado la voce fuori campo — legga attentamente
le avvertenze? Del resto, che la generazione-pillola sia una pacchia per Big Pharma non è mica un segreto: gli esperti lamentano, per esempio, la mancanza di studi specializzati sui rischi, che come si sa richiedono fior di finanziamenti. «Una certa teoria biologica dice che il cervello in via di sviluppo dei bambini potrebbe “sintentizzarsi” proprio per colpa dell’abuso dei farmaci», aggiunge Vitiello. «Ma dati certi non ne abbiamo. Certo è solo che il farmaco non dovrebbe mai essere il primo rimedio. E andrebbe assunto dietro intervento medico. E con l’attenta partecipazione dei genitori».
Ma tutto lascia pensare che la medication generation si lascerà  accompagnare dalle medicine per tutta la vita. «Già  oggi», ricorda l’esperto «una persona di 65-70 anni prende in media 5-10 farmaci al giorno. E mica solo per curarsi. Per prevenzione: per non ammalarsi. La pasticca per il controllo del colesterolo, la pasticca per la pressione, la pasticca per il controllo del diabete, la pasticca per il controllo della tiroide, per incrementare la memoria…».
Figuriamoci che cosa succederà  adesso che l’impasticcamento comincia da bambini. O no? Kaitlin, la giornalista di “Dosed”,
vede un po’ meno nero: «Non solo non ci sono prove che chi assume i farmaci da piccolo sia più esposto all’abuso dei farmaci da grande. Al contrario, ci sono studi che dimostrano come i giovani che si impasticcano già  da piccoli da grandi tendono poi a rapportarsi in una maniera più corretta con i farmaci: più informata ». Non tutta la
medication generation, insomma, vive i tormenti di Emily, che 14 anni dopo resta ostaggio delle sue pasticche: la pillola che ci rende tutti uguali devono ancora inventarla.


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