Il nodo del governo tecnico e il Paese in declino

by Editore | 25 Luglio 2012 8:43

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l debito pubblico sta per raggiungere duemila miliardi di euro: dal novembre 2011, dalla nascita del governo Monti, è cresciuto di cinquanta, mentre la spesa pubblica restava immutata e la pressione fiscale saliva vertiginosamente, i consumi crollavano e, con essi, il Pil. Lo spread è schizzato oltre 500 punti. Il fallimento è tutto di matrice nazionale; ed è velleitario pensare che a scongiurarlo sia l’Europa unita.
Monti cerca di non allarmare l’opinione pubblica interna e di non fornire argomenti alla speculazione esterna. Parla di «pericolo di contagio» (spagnolo); invoca un’unità  salvifica dell’Europa — molto costruttivista, tecnocratica, e scarsamente democratica — che pochi vogliono. Prigioniero del «dispotismo burocratico-amministrativo», scarica su un «nemico esterno», la speculazione internazionale contro l’euro, la responsabilità  della crisi. Gli fanno eco i media, ubriachi di «sospensione della democrazia», una definizione suggestiva, ma politicamente insostenibile dato l’appoggio che gli (stralunati) partiti continuano a dare al suo governo. Qui, il «danno collaterale» è la trasformazione della (corretta) intenzione di evitare elezioni anticipate nel rifiuto tout court delle elezioni da parte di un’opinione pubblica convinta che sarebbero generatrici di guai.
Era stato detto che la sola uscita di scena di Berlusconi — che, in ogni caso, se la meritava — avrebbe comportato la caduta dello spread di almeno duecento punti. Non è avvenuto. Col Cavaliere ancora a Palazzo Chigi, la situazione non sarebbe oggi peggiore, ma neppure migliore; sarebbe la stessa. La crisi è strutturale. Il Paese è in declino di suo. Il governo dei tecnici ha puntato al pareggio di bilancio attraverso la leva fiscale, invece della riduzione della spesa pubblica. Ha ragionato come i governi politici che sacrificavano l’anello debole della catena (il contribuente), risparmiando quello forte (la pubblica amministrazione). Il calcolo si è rivelato miope e già  sta costando caro alla credibilità  del governo. Si è criminalizzata l’evasione, in modo da evitare che la vittima (il contribuente onesto) si accorgesse di quello che le stava capitando. Pura demagogia. Con certi risultati, questo «governo di tecnici allo sbaraglio», se fosse formalmente un governo politico, come di fatto è, sarebbe già  stato massacrato dagli stessi media che (ancora) lo incensano, e sfiduciato dal Parlamento. Ma la parola d’ordine è «non si tocca Monti».
I due partiti che lo sostengono, Pdl e Pd, sono in preda di una crisi di identità , terrorizzati dalla prospettiva di affrontare una prova elettorale. Hanno salutato il governo tecnico come «salvatore della patria» sia i media suggeritori della nascita, e della morte, dei precedenti governi, sia i media incapaci di esercitare una funzione critica per fragilità  culturale e pavidità  politica.
Un merito che va, invece, riconosciuto al governo Monti è quello di aver chiuso, col ripudio della concertazione, la stagione del deficit spending quale motore della crescita e dell’occupazione, secondo ortodossia keynesiana. Si è esaurita l’eredità  del «compromesso socialdemocratico», nato col New Deal rooseveltiano, dalla paura del comunismo sovietico e dalla convinzione di una sua (supposta) «socialità ». Forse (forse) il keynesismo è andato in soffitta — grazie a uno di quei paradossi detti «astuzie della Storia» — con un governo di economisti di sinistra, in odore di keynesismo. Il fiscal compact (saggiamente) approvato dal Parlamento, è un’ottima soluzione; col suo rigore, scongiura regressioni nazionali finanziariamente poco virtuose e giustifica, inoltre, l’ostilità  (realistica) a una caduta prematura del governo dei tecnici, a elezioni anticipate e al ritorno, prima della fine della legislatura (2013), di governi nati in un Parlamento eletto. Si dice che non c’è all’orizzonte, nel breve termine, alternativa credibile. Ed è vero.
Monti — che una parziale riduzione della spesa pubblica sta (lodevolmente) sta realizzando, attraverso un complesso controllo burocratico (spending review) — continua a promettere «sviluppo e crescita». Ma non spiega, né si vede, come potrebbe realizzarli con una politica fiscale recessiva, l’alto livello di burocratizzazione del Paese, un sistema giudiziario lento e irrazionale, e senza fare riforme che allentino l’invasività  della sfera pubblica sulla produzione privata di ricchezza. A questo punto, sarebbe, però, anche inutile chiedersi se tutto quello che ci è stato venduto come oro lo fosse davvero, o non brillasse, piuttosto, come una patacca.
Al posto dei demagogici blitz anti evasione nelle località  di villeggiatura, sarebbe stato meglio dire che l’emergenza non era un 8 settembre (1943) politico-istituzionale e, tanto meno, poteva tradursi nella prassi con la quale far fronte, d’ora in poi, ai problemi che noi stessi ci eravamo creati e che da soli avremmo dovuto (dovremmo) risolvere. Con l’instaurazione di un’inquisitoria «etica fiscale» — con la quale costruire l’«uomo nuovo», civilmente probo, instaurando la «moralità  generale» in un Paese di endemica inefficienza e di diffusa corruzione pubblica — ci sono andati di mezzo, invece, alcune libertà  e certi diritti individuali dei cittadini. Un esempio è la previsione di trasmettere annualmente all’Agenzia delle entrate gli estratti conto bancari dei singoli privati, già  protetti da segreto sulla base del «principio di privatezza» a tutela della persona. L’impressione è che, più di una «sospensione della democrazia» in senso teoretico, si sia trattato di una concreta «lesione» alla (nostra) democrazia storicamente e politicamente reale.

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