La caccia all’uomo degli insorti sulla strada che porta a Damasco “Qui non passate, vi uccidiamo”

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DAMASCO â€” Nella Siria dilaniata da una guerra civile che sembra non finire mai, l’ultimo rischio è quello di una deriva fondamentalista e settaria. Lo dimostra anche un rustico check-point dei ribelli alle porte di Qusayr, verso Homs: dietro un filare di pioppi, due bidoni arrugginiti e un pneumatico nel mezzo bloccano la viuzza laterale. C’è aria di caccia all’uomo, in particolare di alawiti, la minoranza al potere. «Ruh!», forza, muovetevi, fuori! Strepita uno scugnizzo gesticolando con un AK-47 alto quasi quanto lui. Bisogna uscire dall’automobile. «Dove andate, chi siete, fuori la carta d’identità ». All’ombra di un capanno sotto un tetto di foglie di palma, s’indovinano le sagome di una dozzina di adulti e dei caricatori a serpentina in terra. «Fermi qui, aspettate il capo». Spunta un uomo, barba lunga senza baffi, berretto calcato sulla fronte, maglietta nera sopra le brache mimetiche, Kalashnikov in spalla. Andiamo a Qusayr. «Perché?»: dai cristiani. «Siete Masihiyya, cristiani?». Elias, l’autista, conferma. «Non l’ho chiesto a te», abbaia quello. «Certificato di battesimo ». Elias balbetta che gli stranieri non lo portano con sé. Lui lo azzittisce col fucile in faccia. «Recita il Libro». Vorrà  dire il Vangelo? Difficile ricordarlo, figurarsi in arabo. La catenina al collo ha l’immagine della Vergine. Non la riconosce. «Recita!». Nella mente si affastellano l’Ave Maria, i Dieci comandamenti. Bisogna mostrarsi calmi. Il Padre nostro, ecco, tante volte ascoltato in arabo:«Abana alladhi fi as Samawati…Padre nostro che sei nei cieli…». Funziona. Tocca a Elias. Dallo specchietto retrovisore della Honda, visibili dall’esterno, pendono un rosario con i grani bianchi di plastica, e una grossa croce di metallo. Per loro è un simbolo di comodo. Elias ha anche una croce tatuata all’interno dell’avambraccio, lunga dall’incavo del gomito al polso. «Sei druso, ismailita, alawita?», impreca il capo: «Gli alawiti sono senza Dio, infedeli peggio degli ebrei e dei cristiani». Gli tende un trabocchetto linguistico. Dove si combatte a Damasco? Elias esita: «Nel Rif», in campagna. «T’ho chiesto dove»: pretende il nome dei luoghi. Vuole fargli pronunciare Qaboun, con la “q” iniziale. Gli alawiti, infatti, la aspirano un po’ come i toscani. Elias supera l’esame. «Va bene, andate». Restituisce i documenti con una sfilza di improperi: «Tornate a Damasco e dite che adesso arriviamo, e tutti quelli che ci hanno voltato le spalle, e fra loro e gli alawiti non faremo differenza, li passeremo al tritacarne per darli in pasto ai cani». Sono parole già  sentite nei deliranti sermoni di uno sceicco, Adnan al Arur, osannato dai ribelli nella regione di Homs e di Aleppo, trasmessi dalla Wesal tv, un canale saudita. «E tu», fissa gli occhi sullo straniero, «portati via i tuoi amici. Qualche cristiano di meno, tanto meglio».
D’improvviso Elias, coi suoi baffi pettinati e l’abbigliamento modesto, i sandali cuciti, sembra uscito da un’epoca diversa al cospetto dei barbuti con le Nike taroccate ai piedi. Figurante di un tempo, appena poco fa, quando alla Grande Moschea degli Omayyadi accanto al sacrario con la testa del Giovanni Battista si prostravano assieme sunniti, sciiti, cristiani. E la fonte battesimale era rimasta per il sacramento dei cristiani. Capitava di vedere il Gran Mufti Hassoun cedere il palco al Patriarca Isidoro, con questo saluto: «Io mi rispecchio in te. Tu sei dentro di me. Senza di te io non esisterei», in riferimento ai cristiani “fratelli maggiori”.
Il figlio del Mufti è stato ucciso lo scorso ottobre. Hassoun predica ancora la riconciliazione.
Ma ora s’ascolta un nuovo linguaggio. La geografia sociale scaturita dalla militarizzazione della rivolta rischia di frantumare il Paese in tribù: più s’avvicina lo scontro finale ad Aleppo, più si combatte nelle periferie, e più si sente distinguere fra sunniti, alawiti, drusi, cristiani, ismaeliti, kurdi, palestinesi. Affiorano nuove identità  a sottolineare le rivalità : i baathisti, fedeli al governo, gli
Shwam, i damasceni accusati di non sostenere la rivolta, gli Umalaa, i traditori, i Mushriqiyyn ossia gli infedeli. Da un po’ s’aggiungono i “senza scarpe”, gli Abu Shahhata, padri delle ciabatte per indicare nella propaganda classista chi può permettersi soltanto le pantofole, la concentrazione della rivolta nelle zone rurali contrapposte alle città  e alla media borghesia.
«Io», si stringe nelle spalle Elias, «vorrei dirmi semplicemente siriano, come fate voi italiani, i francesi, gli inglesi. C’è gente di ogni comunità  fra oppositori e lealisti». Il buon autista esprime in parole più semplici quel che vanno ammonendo gi studiosi. Ad esempio Patrick Seale, occhiuto conoscitore di questo Paese: «Soltanto un cessate il fuoco, un negoziato e un governo nazionale che guidi la transizione eviterà  questo incubo e la distruzione della Siria». Ma mentre torniamo in città , arriva il boato di quattro esplosioni dalle periferie di Mouadamiyeh e di Qaboun. Per ora, sul terreno, non c’è tregua: come Sansone alla battaglia decisiva, costi quel che costi.


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