La pasta che non scuoce

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GATTATICO (REGGIO EMILIA) – È seduto a tavola anche quest’anno Giovanni Bigi, più di ottant’anni sulle spalle, per mangiare il suo piatto di pastasciutta condita di antifascismo. Come accade ogni 25 luglio da circa vent’anni, da quando cioè, nel cortile della casa dei fratelli Cervi diventata museo, in un comune di campagna in provincia di Reggio Emilia, si è pensato di ricordare la pastasciutta preparata nel 1943 dalla famiglia Cervi e mangiata nella piazza del paese per festeggiare la caduta del fascismo.
Giovanni c’era anche sessantanove anni fa, ne aveva quindici, e ricorda tutto come se fosse ieri. «Il mattino del 25 luglio arrivò la notizia dell’arresto di Mussolini – racconta – e subito i fratelli Cervi pensarono di organizzare una grande manifestazione per festeggiare. Ma il fascismo non lo permetteva, la gente da circa vent’anni non esprimeva più il suo parere e la sua volontà ». Bigi snocciola i ricordi come se li leggesse in un libro impresso nella memoria: «Allora i Cervi pensarono di preparare tanta pasta e di portarla in piazza, così tutti quelli che avevano fame, ed erano molti all’epoca, sarebbero andati e sarebbe stata una maniera per manifestare. Per farlo però – prosegue Giovanni – bisognava chiedere il permesso al consiglio che disse di sì, tranne il segretario, fascista, che obiettò che si doveva fare un’assemblea perché il burro e il formaggio con cui condire la pasta era di tutti i soci. Questo avrebbe significato aspettare tanti giorni. Anche per cucinare la pasta nel caseificio si doveva chiedere l’autorizzazione, Gelindo, il maggiore dei fratelli, disse che ci avrebbe pensato lui». 
E qui il racconto si mescola alla leggenda. «Prese la bici – continua Giovanni – e andò a parlare con il segretario. Gli chiese: la prepariamo o no questa pasta? O con le buone o con le cattive – avrebbe detto – e mostrò qualcosa di misterioso che aveva in un sacco che convinse il segretario ad accettare». Questo, spiega Giovanni, glielo ha raccontato una signora che lavorava al caseificio, ma non si è mai saputo cosa abbia mostrato Gelindo. «Per preparare i maccheroni servirono due quintali di farina – raccomnta ancora Giovanni -, ci volle tutta la notte del 25 e il giorno successivo. La pasta venne cucinata nel caseificio e Gelindo mi chiese di portarla in piazza con il carretto. A mezzogiorno andai a prendere due bidoni pieni, a distribuirla c’erano quattro signorine che poi diventarono tutte delle staffette partigiane. Venne tanta gente, tutto il paese, e fu l’occasione per buttare giù tutti gli stemmi del fascismo, le teste del duce e cancellare le scritte come credere, obbedire, combattere. Fu una grande manifestazione contro il fascismo e la guerra. Io ero antifascista – aggiunge Giovanni – dopo l’armistizio ho nascosto molti soldati e li ho riaccompagnati in bicicletta nei loro paesi. Campegine è stata sempre antifascista. Abitavo a due chilometri dalla casa dei Cervi, la mattina che si è sparsa la notizia che avevano preso tutti i fratelli ho visto il fumo che si alzava dalla casa che bruciava. C’era un progetto per farli scappare il 31 dicembre, approfittando della confusione di fine anno, ma il 27 fu ucciso il segretario del comune di Bagnolo in Piano e per rappresaglia presero tutti e sette i fratelli (che vennero fucilati dai fascisti il giorno dopo, ndr)». 
Di cosa accadde negli anni successivi al ’43 Giovanni non vuole parlare, dice solo che nel ’62 sposò Maria Cervi, figlia di Antenore. Sono trascorsi molti anni, ma anche un paio di sere fa in tanti sono arrivati per mangiare la pasta antifascista. «Abbiamo iniziato i primi anni ’90 nell’aia della casa ed eravamo poco meno di un centinaio, ora ogni anno siamo di più», precisa Rossella Cantoni, presidente dell’Istituto Cervi, la casa museo dove ha vissuto la famiglia.
Quest’anno sono stati preparati più di cento chili di maccheroni e ci sono voluti trentacinque chili di carne per il ragù, per circa milleduecento persone fra giovani e meno giovani. Una data importante che va ricordata, «un momento di grande condivisione – aggiunge Cantoni – come nel 1943 hanno fatto i Cervi con la pastasciutta per celebrare insieme alla comunità  la caduta del fascismo. Il primo momento pubblico in cui la famiglia Cervi si manifestò antifascista. Un’occasione per manifestare anche oggi, in un’atmosfera di festa, la necessità  di antifascismo per uscire dall’indifferenza e per esserlo nel quotidiano».


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