Le Lobby e le Manovre del Governo nel Paese dove i Conti non Tornano mai
S i scrive spending review, si legge manovra strappalacrime. La terza del governo Monti, la tredicesima dall’avvio della legislatura. Un continuo stress per gli italiani; una chiamata alle armi per le lobby. Ne abbiamo in circolo delle più diverse specie: pubbliche o private, laiche o religiose, occulte o palesi, politiche o sindacali, professionali o industriali, e poi le banche, il terziario, le assicurazioni. Anche in quest’ultimo frangente hanno immediatamente posto un veto, dai farmacisti agli avvocati. Minacciano scioperi e serrate, ma la battaglia verrà decisa in Parlamento, quando il decreto del governo dovrà essere approvato. Perché è lì, nel valzer degli emendamenti scritti in ostrogoto, che si consumano favori a spese dello Stato, o che s’innescano precipitose retromarce per risparmiare questa o quella corporazione. E allora ripercorriamone la storia, magari può servirci a indovinare il futuro.
Gli interventi e le polemiche
I primi tre interventi della legislatura cadono nel secondo semestre del 2008, assieme al battesimo del governo Berlusconi. Nell’ordine: il decreto legge anticrisi, convertito dalle Camere il 5 agosto (96 articoli, 707 commi); la Finanziaria, che arriva puntuale (sia pure in formato light) insieme con il panettone; un secondo decreto anticrisi, approvato il 28 novembre dal Consiglio dei ministri. Come al solito, molte pie intenzioni: per esempio la social card (400 euro) e un piano casa per i meno abbienti; la «Robin Hood tax», che accresce il prelievo fiscale per le imprese del settore petrolifero; un tetto al 4% per i mutui a tasso variabile. Molte polemiche: dalla Confindustria che giudica del tutto inadeguato il pacchetto di stimolo per l’economia, fino alle varie associazioni dei consumatori, anch’esse insoddisfatte. Retromarce, come quella innescata dal neoministro dell’Università Mariastella Gelmini, che esordisce sussurrando l’ipotesi di togliere il valore legale della laurea; ma il sussurro dura un attimo, giacché l’Adepp (l’associazione che riunisce le casse di previdenza professionale) alza subito un veto. Guerre fra categorie: la più cruenta divampa in estate fra notai e commercialisti, circa il passaggio di quote nelle srl attraverso una scrittura privata, siglata dalle parti con la firma digitale, e quindi senza timbro notarile. Sicché il Consiglio nazionale del notariato sferra il contrattacco con una pubblicità che elenca le insidie della firma digitale, mentre l’ordine dei commercialisti risponde con un comunicato che esalta le virtù della semplificazione.
La Banca del Mezzogiorno
Ma ogni manovra è pur sempre una tavola imbandita, dove ciascuno trova di che sfamarsi. Così il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, riesce a imporre la Banca del Mezzogiorno, alimentandola con 5 milioni di fondi statali. Dispensa mance e spiccioli: fra l’altro 2 milioni per l’apicoltura, benché non molto tempo prima questa voce di spesa fosse stata presa ad esempio proprio da Tremonti per indicare sprechi di risorse. E tace quando il presidente del Consiglio (2 dicembre 2008) arriva a prospettare l’Iva al 50% per Sky, tv concorrente delle tv di Berlusconi. Alla fine ne verrà deciso il raddoppio (dal 10% al 20%) sulle pay-tv, decisione che rispecchia il nuovo clima istituzionale del Paese: perché adesso non sono più le lobby a condizionare dall’esterno l’azione dei governi, sono i governi che includono le lobby al proprio interno. È il caso di Mediaset, lobby di lotta e di governo.
Punto e a capo, scocca il 2009. Quando le manovre sono due: quella estiva, con l’ennesimo decreto anticrisi; e poi la Finanziaria di dicembre. Il primo intervento vale 5 miliardi e mezzo; stringe un po’ i conti pubblici, benché Tremonti s’affretti a dichiarare che la situazione sia sotto controllo (invece non lo è affatto, come dimostreranno le vicende successive); e ovviamente è corredato dal solito pacchetto di rinunce (l’annunciato giro di vite sulle banche) e di rinvii (la class action). Ma la sua perla più preziosa è lo scudo fiscale-ter: per favorire il rientro dei capitali italiani illegalmente detenuti all’estero, paghi il 5% e scatta l’assoluzione di Stato. Una misura premia-furbi, come immediatamente scrisse l’Avvenire, quotidiano non certo ostile all’esecutivo in carica. Una promessa tradita, dal momento che in campagna elettorale (31 marzo 2008) Berlusconi si era impegnato a non riaprire la stagione dei condoni. Un calcolo sbagliato: il governo aveva stimato il rimpatrio di 300 miliardi, l’anno dopo se ne conteranno solo 80. E in conclusione una ferita al principio di legalità , come se in passato non ne fossero state inflitte già abbastanza.
Quanto alla Finanziaria, esce dal forno con due soli articoli, farciti però da 247 commi. Innesca una querelle fra il governo e il presidente della Camera, Gianfranco Fini, dopo la scelta di blindarla ponendo la questione di fiducia. Riattizza le polemiche sullo scudo fiscale, che tuttavia Tremonti difende a spada tratta, definendolo «la più grande manovra finanziaria mai fatta da un Paese negli ultimi anni». E naturalmente dispensa pacchi dono, ben infiocchettati sotto l’albero di Natale. 400 milioni per l’autotrasporto. 50 milioni alle emittenti radiotelevisive locali. 130 milioni alle scuole cattoliche, pardon, private. 120 milioni per le assicurazioni degli agricoltori, più altri 100 per il loro fondo di solidarietà . Infine 181 milioni d’interventi a pioggia. Soldi per il Belice, quarant’anni dopo il terremoto; per gli esuli di Fiume, Istria e Dalmazia; per le associazioni dei combattenti; per l’Unione italiana ciechi; per le vittime del terrorismo; per il Policlinico San Matteo di Pavia; per l’Istituto mediterraneo di ematologie; e via via, la lista ha più grani di un rosario.
La legge di stabilità
Ma è l’ultima Finanziaria vecchio stile: il 16 dicembre 2009 il Senato esprime un sì definitivo alla riforma della contabilità pubblica, sostituendo questo strumento normativo con la legge di stabilità . E il nuovo stile? Tal quale il vecchio. La manovra approvata nel dicembre 2010 stanzia 100 milioni per l’editoria, 25 milioni per le università private, e al contempo rimpolpa le dotazioni delle Forze armate o del Servizio sanitario nazionale, magari a costo di prosciugare il Cinque per mille. Tuttavia è soltanto un dessert, un digestivo, perché il vero pasto si era già consumato in estate. Il decreto legge n. 78 del 31 maggio 2010, convertito il 30 luglio dalle Camere, aveva propinato infatti una cura da cavallo all’economia italiana, per difenderla dalla crisi dell’euro: 24,9 miliardi il saldo complessivo. A danno, soprattutto, dei dipendenti pubblici, che si videro congelare lo stipendio per 3 anni; mentre sui dirigenti scattava una decurtazione del 10%. Ma la manovra estiva, come tutte le manovre dei nostri governi, distingue tra figli e figliastri: ci sono i sommersi e ci sono i salvati. D’altronde è in tali frangenti che si misura la forza di ogni corporazione, durante le intemperie, quando occorre mettersi al sicuro.
Chi sono i salvati? Intanto le banche: il decreto governativo introduceva nuove tasse, il Parlamento le ha poi eliminate. C’era inoltre l’idea di istituire un’authority di controllo sulle fondazioni bancarie: caduta pure questa. In secondo luogo le assicurazioni, sulle quali incombeva una vera e propria purga, e che invece se la cavano con un maggior peso fiscale di 230 milioni. In terzo luogo i partiti: inizialmente il rimborso per le loro spese elettorali avrebbe dovuto subire un taglio del 50%, poi del 20%, infine si è fermato al 10%. Idem per le retribuzioni di ministri e sottosegretari, un dimagrimento più simbolico che sostanziale. In quarto luogo le Province: dovevano saltarne una decina, tutto rinviato al nuovo codice delle autonomie. In quinto luogo i magistrati, usciti vittoriosi da un lungo braccio di ferro col governo, durante il quale l’Anm aveva minacciato scioperi e sfracelli. La pace giudiziaria viene siglata all’ombra di un comma alquanto misterioso, sbucato fuori all’improvviso in Parlamento: «Nei confronti del personale di magistratura e dell’Avvocatura dello Stato, per il triennio 2013, 2014 e 2015 si applica l’adeguamento computato sulla base del triennio 2007, 2008, 2009». In pratica i magistrati scampano il blocco degli stipendi. Evviva.
Altro giro di boa, ed eccoci al 2011. Quando le manovre orchestrate per far quadrare i conti diventano addirittura 4: tre targate Berlusconi, l’ultima (a dicembre) con la firma in calce di Monti. Il primo colpo esplode a luglio; ma è un colpo a salve, nonostante le buone intenzioni. Quali? In primo luogo una stretta fiscale per le società che gestiscono i pedaggi autostradali, abbassando all’1% il limite alla deducibilità degli ammortamenti sugli investimenti delle concessionarie. «Un disincentivo», denuncia l’amministratore delegato di Atlantia, Giovanni Castellucci; «una cazzata», aggiunge soave il presidente dell’Aiscat, Fabrizio Palenzona. Detto fatto: provvedimento ritirato. Così come rientra in quattro e quattr’otto il proposito d’abolire gli ordini professionali, attraverso l’art. 39-bis della manovra. Apriti cielo: il presidente del Consiglio nazionale forense, Guido Alpa, esprime immediatamente il proprio sdegno; il presidente del Collegio nazionale dei periti agrari, Andrea Bottaro, denuncia l’attacco alle professioni; il presidente della Federazione degli ordini dei farmacisti italiani, Andrea Mandelli, punta l’indice contro la liberalizzazione selvaggia; il presidente del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti, Claudio Siciliotti, definisce sconcertante il metodo seguito dal governo. E infine tutti questi presidenti armano la mano di 22 senatori-avvocati, che scrivono una lettera di fuoco al presidente del Senato-avvocato Renato Schifani, con il sostegno esplicito del ministro-avvocato Ignazio La Russa: amen, tutto rinviato alle calende greche.
Il contributo di solidarietà
Il mese dopo parte il secondo colpo, la manovra d’agosto. Quella che stabilisce un contributo di solidarietà per i redditi più alti, subito bollato come «inaccettabile e iniquo» da Confindustria e Federmanager. Risultato? Il contributo resta, ma solo per i dipendenti pubblici (5% sopra i 90 mila euro, 10% oltre i 150 mila euro). Sicché i lavoratori privati la fanno franca, a dispetto del principio costituzionale d’eguaglianza. Ma non può esserci eguaglianza nel Paese delle corporazioni, e proprio quest’ultima manovra lo dimostra nel modo più eloquente. Perché i parlamentari liberi professionisti riescono a dimezzare il taglio dell’indennità (da 2.700 a 1.500 euro mensili). I gestori degli stabilimenti balneari mancano per un soffio il blitz che avrebbe allungato fino a 90 anni la durata delle loro concessioni. I tassisti ottengono d’essere esentati rispetto alla pur timida liberalizzazione dell’accesso a talune attività economiche. Infine la Chiesa cattolica respinge con successo gli emendamenti sull’Ici per le proprie attività commerciali. D’altronde in Italia le chiese sono tante, ciascuna col suo santo in Paradiso. Ma nessun santo salva il governo Berlusconi, ormai giunto all’ultima curva del circuito: il 12 novembre le Camere approvano la legge di stabilità , lo stesso giorno il presidente del Consiglio si dimette.
Nasce perciò il governo Monti, e qui passiamo dalla storia alla cronaca. Perché è ancora fresco il ricordo del fuoco di sbarramento alzato dalle lobby contro il decreto «salva Italia» (4 dicembre 2011), e successivamente contro il decreto «cresci Italia» (24 gennaio 2012, salutato in Parlamento da 2.299 emendamenti). Sicché la vendita al supermercato dei farmaci di fascia C va a farsi benedire; i tassisti scansano le liberalizzazioni; i commercianti le rinviano in nome della competenza regionale; i petrolieri mantengono il vincolo di fornitura in esclusiva sui carburanti (a eccezione dei benzinai proprietari della pompa: ma sono il 2% appena del totale). Mentre le banche, nello stesso giorno in cui entra in vigore la legge che azzera le commissioni bancarie (25 marzo 2012), ne ottengono il ripristino con un decreto legge, anche perché nel frattempo i vertici dell’Abi si erano dimessi in blocco. Insomma, una legge effimera come una farfalla; ma dopotutto in Italia le manovre dei governi sono sempre instabili e precarie. L’unico dato permanente è la forza plumbea delle corporazioni.
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