«L’uomo senza qualità » siede fra gli scranni del Parlamento

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Se avesse scritto un libro più aggressivo e diretto, Elena Di Dio avrebbe fatto meno male a Renato Schifani (Schifani. Biografia non autorizzata, Editori Internazionali Riuniti, pp. 122, euro 15,90). La sua biografia non autorizzata del presidente del Senato, educata, civile e cesellata coi fatti, molto giornalistica, fa affiorare un personaggio politico di non grande carisma e di poca qualità , se non quella di sapere scegliere l’oggetto della propria devozione. 
Renato Schifani non esce a pezzi dal lavoro della giornalista siciliana, in passato firma di spicco del settimanale Centonove e oggi redattrice del mensile il Sud. Non esce a pezzi, ma in qualche modo gli va pure peggio, perché se Di Dio avesse scelto la strada dell’attacco viscerale, del profilo greve, avrebbe finito per sommergere di colori pacchiani il soggetto che stava dipingendo, occultandone tratti esili ma decisivi. 
Proprio grazie alla modalità  scelta per tracciarne i lineamenti, Renato Schifani, appare per ciò che è. Una figura minore, grigia, priva di epica, ma risoluta e costante nel perseguire gli ambiziosi disegni interiori, capace di collocarsi con furbizia negli anfratti della politica siciliana, molto attiva quando si tratta di cimentarsi nella sua specialità . Servire. Stare al servizio di una causa, anzi di una persona, che nel caso del Pdl e di Silvio Berlusconi coincidono. Fedele e acritico, il senatore siciliano, come deve essere la persona di buon comando, premiato per questo, oltre l’immaginabile, con la seconda carica dello Stato. Notevoli sono le pagine in cui l’autrice mette una dietro l’altra una serie di dichiarazioni del protagonista, non ancora presidente del Senato, che quasi d’incanto esce, come i personaggi di un romanzo del neurologo Oliver Sachs, dallo stato catatonico quando deve pronunciare le sue omelie a difesa del capo. «Sto dedicando la mia vita a lui, credo molto in Silvio Berlusconi». Non penso siano parole che un figlio vorrebbe sentire dal padre e neppure un cittadino da una figura istituzionale. 
Da leggere tutto d’un fiato, il volume di Elena Di Dio, da staccare e conservare a parte il capitolo intitolato «Veline al vetriolo», dove attraverso i virgolettati attribuiti al senatore, si ricompone il profilo minimo dell’ennesimo siciliano in soccorso dell’imprenditore di Arcore, una compagnia acritica e nutrita (ma anch’essa di esiguo talento e per questo grata) che mi ricorda le mie estati da bambino, nel quartiere alla periferia di Messina, quando giungeva dal Nord il nipote di un signore bolognese, e ci intratteneva con delle bugie colossali, che prendevamo per buone perché lui era settentrionale. Eravamo bambini e presto saremmo guariti da quel servilismo geografico, culturale, sociologico e psicologico che nel nostro triste ventennio, con la complicità  di tanti nanetti (e nanette) da giardino, ha messo il Paese in mano ad un imprenditore spregiudicato, traboccante di ormoni e di complessi di inferiorità  irrisolti, con tanto di maldestri tentativi di compensazione sulle spalle di sessanta milioni di cittadini. Metà  dei quali distratti e dunque colpevoli.


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