Mirafiori, il gigante senz’auto né parte

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TORINO – Dalla porta 2 sono scomparsi i banchetti degli ambulanti: niente più radioline, frutta e verdura, magliette o mutande. Se ne sono andati con i «clienti». E’ in crisi anche il chiosco-bar in cui per anni si sono mescolati caffè, cornetti e volantini sindacali: rischia di chiudere insieme al colosso per cui aveva aperto. Resiste un anziano venditore di pile e batterie; è in pensione e arrotonda così. Ma solo quando di lì passa qualcuno, quattro-cinque volte al mese. Che, poi, sono i giorni in cui di lavoro per i 5.000 operai delle carrozzerie; da settembre saranno solo 2.500. Il dissanguamento di Mirafiori è segnato anche dalla scomparsa del piccolo commercio ai cancelli: vale pochissimi centesimi di Pil, qualcosa di più in termini simbolici.
Trent’anni fa nella fabbrica più grande d’Europa ci «vivevano» 56.000 persone. Divise in tre turni orari, sfornavano più di 400.000 auto l’anno. Nel 1990 i lavoratori erano 40.000, continuando a produrre più o meno lo stesso numero di vetture. Altri dieci anni e, nel 2000, le presenze umane scendevano a 22.000, la produzione si perdeva nella crisi aziendale, l’annata migliore del XXI° secolo è stata il 2006 con 218.000 automobili. Un lungo declino, parallelo a quello della quota di mercato europeo del gruppo torinese: 14% a metà  degli anni ’80 (al secondo posto grazie al miracolo della Uno), 12% nel 1992, 7,5% dieci anni fa, 6,4% a giugno 2012 (e settimo posto in classifica). Una discesa spiegabilissima, perché oltre alla crisi economica globale e quella specifica dell’auto il Lingotto non sforna nuovi modelli da anni, con l’eccezione della nuova Panda, al massimo appiccica il logo Fiat o Lancia a rifacimenti Chrysler. Quando si perde il passo dell’innovazione di prodotto si resta tagliati fuori. Difficile recuperare, perché l’auto è un oggetto complesso, l’insieme di mille componenti e il frutto di tecnologie diverse. Per questo è industrialmente importante, chiede continua attenzione e alti investimenti, nonostante ogni singola vettura faccia guadagnare poco e sia una merce «vecchia» – almeno finché non si troverà  il modo di renderla davvero ecologica, nelle dimensioni, nei materiali e nei propellenti. 
Oggi a Mirafiori ci sono circa 15.000 persone alle dipendenze della Fiat, tra impiegati e operai, tra «diretti» e «indiretti». Nel primo semestre 2012 sono state prodotte 25.000 vetture ma a fine anno non si arriverà  a 50.000: il 20 luglio il Lingotto ha annunciato la fine della produzione di Musa e Idea, senza sostituirle con altri modelli, azzerando le già  scarse ore di lavoro per 2.500 adetti: chiude una delle due linee residuali, dopo le ferie ripartirà  – sempre a basso regime – solo la produzione della Mito. «Ma in officina – raccontano gli operai – si dice che i fornitori hanno ricevuto ordini solo per il mese di settembre, poi non si sà ». 
Rabbiosi, pentiti, speranzosi
Insieme con gli ambulanti dai cancelli di Mirafiori se ne è andata anche l’opinione pubblica cittadina. Lentamente, un po’ alla volta, proporzionalmente all’evaporazione della Fiat da Torino. Anche allegramente, pensando che quella fabbrica e quell’azienda fossero troppo pesanti, credendo di poter trovare altrove un’alternativa più divertente. Torino si è allontana dai quei cancelli e da quella memoria, badando al centro tirato a lucido e rimuovendo i «brutti ricordi» della company-town. La città  turistica, la città  olimpica, la città  d’arte, la città  evento nel 150° dell’Unità  italiana… Ogni stagione ha trovato il proprio presente, uno qualunque, fuorché città -fabbrica. Soprattutto «quella» fabbrica. Che sfumava anche altrove, naturalmente, dai 150.000 addetti italiani dell’auto di trent’anni fa ai 60.000 di oggi. Ma qui la discesa è più ripida: per storia, per numero di stabilimenti chiusi, per le ripercussioni sull’indotto (per ogni lavoratore Fiat «esodato» ne scompaiano 3 o 4 dell’indotto), per lo spreco di conoscenze, per mancanza di alternative. E, così, tanti «presenti» non hanno fatto un futuro. Né per la città , né per le 35.000 persone che – tra auto, Iveco, centri ricerca e servizi vari – dipendono ancora dal Lingotto. 
Impoverimento è una parola quasi vietata nella città  ufficiale, ma ben conosciuta tra chi è cresciuto a «pane e auto», anche se su sponde opposte e «nutrendosene» in modo diverso. Vale per i delegati della Quinta lega Fiom: «Con gli 800-900 euro della Cig non si fa molto, ma è il vuoto di prospettive che spaventa. Qui stanno smontando le linee – alcuni pezzi li hanno portati alla Bertone – senza sapere se e quando verranno montati gli impianti per produrre le Jeep promesse da Marchionne. Che, poi, quanti ne faranno – se li faranno – di questi Suv? Quanto lavoro daranno? Qui ci sono 15.000 lavoratori, con tutto l’indotto si superano i 60.000 occupati nel torinese: che si fa? Cassa integrazione in deroga fino alla pensione?». Edi Lazzi, Nina Leone e Pasquale Loiacono sono tutt’altro che rassegnati, ma una paralisi simile a Mirafiori non l’hanno mai vista. Più o meno la stessa sensazione provata da uno che viene dall’altra parte della barricata, come Maurizio Magnabosco, responsabile del personale alla Fiat-auto dei grandi conflitti sociali: «Mirafiori ha sempre catalizzato tutto ciò che gira attorno al mondo dell’auto. Dalla progettazione alla distribuzione significa un sacco di mestieri e conoscenze messe in discussione con il dissanguamento di questa fabbrica. Non si può immaginare una Torino senza industria, né un’attività  automobilistica a prescindere dalla Fiat… certo che se non si riesce a essere competitivi nemmeno in una fabbrica come Melfi è dura pensare al futuro di Mirafiori e dell’intero gruppo. Dovrebbe essere un problema di tutti, il tema centrale di discussione per la città . Ma c’è qualcuno che riesce ancora a parlare con Fiat?». Giorgio Airaudo, segretario nazionale e responsabile auto per la Fiom, ci ha provato più d’una volta. L’ultima è finita con il referendum e lo scontro di due anni fa ai cancelli di Mirafiori. Ma non solo per quello è pessimista: «Prima di Marchionne c’erano sette modelli che giravano su cinque linee. Dopo l’estate avremo un modello – in esaurimento – su una linea, mentre la cassa integrazione ormai coinvolge anche la palazzina nei cui corridoi aleggia il fantasma di 1.500 esuberi tra tecnici e impiegati. Nel frattempo il quartier generale Fiat risiede in pianta stabile a Detroit, dove sono stati spediti anche un bel po’ di ingegneri italiani. Mirafiori non è stata ancora del tutto chiusa per storia e per motivi d’immagine. Il rischio più concreto è di ritrovarci a Torino con un solo stabilimento dell’auto attivo, l’ex Bertone, una piccola Mirafiori da 1.500 addetti – “perfetta” per farci i Suv e consimili -, con quella originale a deperire verso il nulla. Per questo servirebbe un intervento politico». Auspicio che sembra anche una richiesta di ravvedimento rivolto a gruppi dirigenti che hanno sempre sposato, senza discuterla troppo, la linea del Lingotto. Dalle dismissioni alla destinazione delle aree industriali abbandonate, dalla riconversione in chiave finanziaria dell’azienda fino all’approvazione delle ultime ipotesi industriali (si fa per dire) retoricamente chiamate «Fabbrica Italia» e le relative ricadute sui lavoratori. Oggi l’ex sindaco Chiamparino non gioca più a scopone con Marchionne, invoca l’arrivo di capitale tedesco e sposa la «provocazione» lanciata dalla Fiom tifando per Wolfsburg alla conquista dell’Alfa. L’attuale primo cittadino Fassino si dice «non rassegnato alla scomparsa della Fiat da Torino, convinto che la stessa Fiat sia consapevole che abbandonando la città  andrebbe incontro a un grave problema identitario e fiducioso che nel futuro della città  l’auto ci sarà  ancora». Di diverso avviso gli ambienti borsistici, quelli che hanno visto le azioni Fiat ondeggiare, dai 5,34 euro con l’arrivo di Marchionne ai vertici del Lingotto (giugno 2004) ai 23 euro dei primi anni – garantendo l’eterna gratitudine degli investitori attenti solo alle proprie commissioni – fino al precipizio dei 3,5 euro di oggi: «Se ragiono come un investitore finanziario – confessa un broker torinese che lavora a Milano – non c’è nessuno meglio di Marchionne. Se ragiono da torinese, nessuno è peggio di lui». Doppio e un po’ schizofrenico, come Torino, che ignora la fabbrica ma continua ad appoggiarsi a chi la possiede, affidando – un po’ per abitudine, un po’ per scarsa fantasia – a quella proprietà  e a quei dirigenti la possibilità  di evitare una scomparsa troppo brusca. 
Decide tutto uno solo
La quotidianità  che si vive dentro e attorno i 3 milioni di metri quadri della fabbrica torinese non spinge all’ottimismo. Né aiutano le dichiarazioni dell’amministratore delegato che un giorno sì e l’altro pure paventa la chiusura di uno o due stabilimenti in Italia. Mirafiori è il più vecchio di tutti (inaugurato da Mussolini il 15 maggio ’39, in uno degli rari insuccessi di piazza del dittatore) e con l’anzianità  del personale più elevata: facile immaginare quanti scongiuri si facciano da queste parti, mentre tra gli stabilimenti italiani è in corso la lotteria della sfiga: «Termini Imerese è andata. Restano Mirafiori, Cassino, Pomigliano, Melfi: a chi toccherà ?». Forse a tutti un po’ alla volta: come è successo al colosso torinese, dove c’è ancora tutto – meccaniche, presse, carrozzerie, enti centrali – anche se in misura sempre più piccola. Il problema è capire cosa vuole davvero fare l’uomo che siede – solo – al comando, visto che la frammentata famiglia di riferimento è unita solo dalla rendita, non scucirà  un euro in difesa del motore, al massimo chiede prudenza e lentezza nelle dismissioni a Torino. Dipende tutto da Marchionne che ultimamente se la prende con Volkswagen perché ribassa troppo i prezzi (curioso per un «uomo del libero mercato»), maltratta un po’ tutti e fa crescere il malumore anche tra i suoi fedelissimi che cominciano a dubitare del suo interesse per l’industria dell’auto. Eppure le sue intenzioni di fondo non sono così difficili da immaginare, variano «solo» nei particolari. L’obiettivo del manager italo-canadese con residenza in Svizzera è lanciare una Ipo (Offerta pubblica iniziale) per quotare a Wall Street un nuovo titolo – presumibilmente chiamato Chrysler – in cui portare tutta Fiat spa (rinviando al «dopo» la vendita dell’Alfa a Volkswagen), attirando investitori e valorizzandolo per una ventina di miliardi di dollari, utili a saldare i debiti con i sindacati americani e i prestiti bancari fatti per restituire i soldi che Obama gli aveva anticipato per resuscitare il marchio di Detroit. Poi potrà  monetizzare il proprio lavoro, valutarlo tra i 200 e i 300 milioni di dollari, incassare e… andarsene altrove. Per far questo non ha moltissimo tempo (due anni), la crisi dell’auto non l’ha aiutato e – soprattutto – per raccogliere la fiducia degli investitori a Wall Street deve alleggerire il peso degli stabilimenti italiani. Ma evitando traumi, infondendo la sicurezza di chi ha il pieno controllo della situazione, dissanguando progressivamente le fabbriche con accordi che vincolino l’occupazione all’andamento del mercato. Dando l’impressione di governare un ridimensionamento, non una dismissione. Per Mirafiori – e non solo – sarebbe una lunga agonia e una morte certa dopo la quotazione a Wall Street. Non è un esito scontato, anche se in questi anni Sergio Marchionne non ha dovuto fare molte mediazioni. Potrebbero costringerlo – almeno a render conto e a rispettar le leggi – la politica e il governo italiano. Non fossero quel che sono. Altrimenti il futuro è nella parabola di un vecchio torinese, ex operaio Fiat: «Negli anni ’70, in via Po c’era un negozio di un certo Gabbai, vendeva abiti fallati e due volte l’anno lanciava una chiassosa campagna al di grido di “Oplà , Gabbai, vendo tutto e mi ritiro”. Vendeva tutto ma non si ritirava mai. Poi un giorno – dopo le ferie d’agosto – olpà , il negozio non riaprì più. Lui scomparve. Temo che la Fiat finisca così».


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