Omicidi senza tragedia

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L’evento non lascerà  tracce durature, con questi eventi gli americani sono abituati a convivere. Tra i politici, come anche nell’opinione pubblica, l’appoggio alla libera vendita delle armi è largamente maggioritario. Statistiche alla mano non sembra che tra la libera vendita delle armi e il numero globale degli omicidi ci sia una correlazione attendibile. Negli Stati Uniti questo fatto è sottolineato, è uno degli argomenti contro l’introduzione di norme restrittive per la vendita delle armi. In realtà  il confronto tra la vendita delle armi e il numero degli omicidi è assolutamente fuorviante. Lasciando da parte il fatto ovvio che più armi si vendono più aumenta il rischio di omicidi (nella cui determinazione contribuiscono prevedibilmente tanti altri fattori), è preferibile concentrare la propria attenzione sui meccanismi psicologici ai quali il possesso di armi è strettamente associato. Cosa significa in effetti su un piano squisitamente funzionale di difesa personale la libertà  di possesso di un’arma? Poco o nulla. Nella stragrande maggioranza dei casi facilita la possibilità  di uccidere qualcuno per motivi di paura sproporzionata o di un impeto di ira e aumenta la possibilità  di essere uccisi da un delinquente (statisticamente più abile o più spregiudicato a uccidere). Più che la realtà  dei fatti nell’aspirazione di possedere un’arma conta la fantasia di uno scontro a fuoco da cui si esce vincitori (che ha da sempre uno spazio grande nel cinema). Questa fantasia ha radici inconsce profonde e complesse. Uccidere l’oggetto desiderato nella sua soggettività  (possedendolo in modo spietato) e farsi uccidere da esso, abdicando alla propria soggettività  (e annullandosi tra le sue braccia) sono le forme più primitive e passionali del desiderio che fondano il dilemma tragico (il dilemma esistenziale messo in scena dai grandi poeti tragici): la scelta tra sé e l’altro in un contesto in cui è evidente che l’altro (oggetto costitutivo della capacità  di desiderare) è, al tempo stesso, minaccia mortale e garanzia di vita della nostra soggettività  desiderante. Penetrare l’altro e esserne penetrati, la compenetrazione reciproca (a partire da un fondamento erotico), è la soluzione auspicata, spesso vulnerabile. Il segno del fallimento è la costituzione di un fantasma di invasione, la configurazione dell’altro come dotato di protesi fallica che penetra a senso unico nel nostro mondo interno e nello spazio del nostro desiderio. Uccidere questa figura per eccellenza castrante in fantasia come nel sogno ha una funzione apotropaica, di riequilibrio interno del nostro rapporto con l’oggetto di desiderio nel punto in cui esso rischia di essere percepito come troppo pericoloso. Uccidere il nemico castrante consente il ritrovamento del «fratello» erotico (come insegna Antigone). Tuttavia quando la fantasia dell’uccisione diventa ossessiva e dominante siamo in presenza di una sua collocazione fuori dallo spazio tragico. Ci si precipita in uno spazio «virtuale» (la negazione della tragedia) in cui non si uccide per odio ma nel tentativo disperato e fallimentare di ritrovare l’odio, la passione smarrita.


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