Otto villaggi sotto sfratto

by Editore | 31 Luglio 2012 10:40

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Ben otto villaggi palestinesi a sud della città  di Hebron, in Cisgiordania, rischiano di essere demoliti dall’esercito israeliano che userà  quelle aree per svolgervi manovre militari. Si attende ora la decisione dei giudici della Corte Suprema di Israele. Riferita nei giorni scorsi dal quotidiano Haaretz, la notizia è stata ignorata da buona parte dei media internazionali. Nei territori occupati al contrario ha suscitato proteste e forte preoccupazione. Molti l’hanno interpretata come il passo preliminare all’espulsione dei palestinesi dalla zona C, ossia quel 61 per cento della Cisgiordania che a quasi 19 anni dalla firma degli Accordi di Oslo (l’anniversario è il 13 settembre) rimane sotto il controllo esclusivo dell’esercito israeliano. Gli abitanti degli otto villaggi saranno «trasferiti», evidentemente contro la loro volontà , verso la cittadina di Yatta dove alcuni di loro avrebbero altre abitazioni. L’esercito, quando non dovrà  svolgere le esercitazioni, consentirà  ai contadini palestinesi di raggiungere i campi coltivati nelle aree confiscate. Lo stesso avverrà  in altri due periodi dell’anno. 
Majaz, Tabban, Sfai, Fakheit, Halaweh, Mirkez, Jinba e Kharuba. Piccoli villaggi di pastori, alcuni dei quali vivono in case ricavate da grotte. Israele li considera «illegali». Ma gran parte di essi esisteva già  nel 1830, ha sottolineato lo stesso Haaretz. In ogni caso sono centri abitati palestinesi in territorio palestinese e per la legge internazionale i veri illegali sono gli insediamenti colonici israeliani. Con un gesto di «generosità » il ministero della difesa israeliano ha «salvato»Tuba, Mufaqara, Sarura and Megheir al-Abeid. Si tratta di una vicenda che comincia negli anni ’70 quando l’esercito israeliano dichiarò circa 30mila dunam (3mila ettari) di terra palestinese zona proibita ai non residenti. Un provvedimento vecchio di 40 anni, che già  indicava l’intenzione di Israele di non restituire ai palestinesi porzioni consistenti della Cisgiordania dove in seguito, non certo a caso, ha costruito gran parte delle sue colonie nei Territori occupati. E non è un caso neanche che il percorso del Muro di Separazione segua, più o meno fedelmente, la «frontiera» tracciata da questo disegno antico ma sempre attuale.
Firmando gli accordi che vanno sotto il nome di Oslo 2 (1994), Israele in cambio del via libera alla nascita dell’Autorità  nazionale palestinese (Anp), si assicurò il controllo totale del 61% della Cisgiordania (Area C), fino ad un accordo definitivo dello stutus dei Territori occupati palestinesi che, nel frattempo, non è mai arrivato. Ha anche il controllo di sicurezza della cosiddetta Area B (oltre 20% della Cisgiordania) dove l’amministrazione civile è palestinese. All’Anp dopo 19 anni di trattative, rivolte palestinesi contro l’occupazione, negoziati veri e presunti, resta il controllo pieno di meno del 20% della Cisgiordania. «Pieno» sino ad un certo punto, perché le forze armate israeliane non esitano ad entrare anche nelle città  autonome palestinesi per «operazioni di sicurezza». 
«Israele non ha mai dichiarato apertamente la sua linea ufficiale per l’Area C ma la attua in silenzio sul terreno», spiega l’avvocato Shlomo Lacker, dell’Associazione per i Diritti Civili (Acri), che rappresenta 200 famiglie palestinesi minacciate di espulsione. «È un modo per prendere le distanze dagli accordi con i palestinesi, gli Stati uniti e dalla possibilità  di raggiungere la soluzione dei due Stati (Israele e Palestina). Non ci saranno i due Stati se Israele prenderà  il controllo di tutto» aggiunge Lecker. Nell’Area C della Cisgiordania, oggi ancora più di prima, ai palestinesi è vietato costruire persino un muretto alto 50 cm senza l’autorizzazione dell’esercito che raramente concede permessi edilizi. Persino le agenzie e le ong internazionali si trovano in forte difficoltà  quando devono operare in questa ampia fascia di territorio palestinese sotto la piena occupazione militare israeliana.
Mark Regev, portavoce dell’ufficio del primo ministro israeliano Netanyahu, respinge seccamente la tesi di chi denuncia tentativi di espulsione della popolazione palestinese. «Smentisco totalmente che sia in atto un piano per spingere fuori i palestinesi dall’Area C. Israele sulla base degli accordi firmati ha il controllo di questa porzione di territorio. Lo status finale sarà  deciso attraverso negoziati futuri», afferma Regev. Tuttavia sul terreno le cose vanno diversamente e la politica israeliana appare in linea anche con la composizione demografica del territorio emersa dopo quasi venti anni di trattative inutili in cui le colonie sono cresciute in numero e, soprattutto, per estensione. Oggi in Area C vivono oltre 300mila settler israeliani e un numero imprecisato di palestinesi: dai 117mila registrati dall’Ufficio Centrale di Statistica dell’Anp ai 92mila indicati da Israele, fino ai 150mila delle statistiche ufficiali di Ocha, l’ufficio di coordinamento degli affari umanitari dell’Onu. E sulla base di questi numeri la destra israeliana chiede al governo di passare alle vie di fatto e di annettere subito l’Area C, in modo da definire con un atto unilaterale i confini dell’entità  (senza reale sovranità ) che sarà  chiamata Stato di Palestina all’interno della Cisgiordania.
Si spiega così la richiesta di demolizione degli otto villaggi palestinesi a sud di Hebron. Ma nessun rappresentante ufficiale israeliano commetterà  l’errore di ammerterlo apertamente e continuerà  a parlare di «rimozione di abusivi».

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