Paradosso Italia, Tassi più Alti di Dublino

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In un modo o nell’altro, portoghesi, italiani, irlandesi, greci e spagnoli — cioè gli europei in crisi — hanno gettato via un decennio. Per orientarsi nelle statistiche dell’Eurozona — spesso astratte, tra debito e deficit pubblici, tassi e via dicendo — e per capire come si stia modificando la geografia della crisi, è il caso di partire da qui, dal Prodotto interno lordo (Pil) pro-capite, cioè da quanta ricchezza ogni cittadino produce, in valore, in un anno. Bene: se si confrontano i cinque Paesi citati sopra, si vede che tutti sono sostanzialmente rimasti o tornati ai livelli dei primi anni dell’euro, cioè a dieci anni fa o oltre.
Secondo dati del Conference Board, la lobby dei produttori americani citata dal Financial Times, il Pil pro-capite (messo a confronto tra Paesi tenendo conto della parità  di potere d’acquisto, cioè dei prezzi interni) in Italia nel 2011 era di circa 32 mila dollari, lo stesso livello del 1999: nei 12 anni trascorsi, era un po’ salito, a 34 mila dollari nel 2007, prima dello scoppio della crisi finanziaria. Sostanziale stagnazione dell’economia. Lo stesso è successo al Portogallo: 22 mila dollari oggi, come nel Duemila, senza grandi variazioni negli anni. In Spagna, invece, il Pil pro-capite è passato dai 30 mila dollari del Duemila agli oltre 33 mila del 2007 per poi tornare a poco più di 30 mila l’anno scorso. Lo stesso andamento – boom negli anni centrali del decennio scorso e poi caduta – lo hanno registrato la Grecia, oggi a 27 mila dollari come nel 2003, e l’Irlanda, a 38 mila dollari come nel 2001. Visto lo stato delle economie di questi Paesi, tutte in recessione quest’anno e probabilmente il prossimo (eccetto l’Irlanda), è certo che alla fine gli anni persi saranno più di dieci. Per avere il confronto con il cuore dell’Europa, la Germania è passata da un Pil pro-capite di 33 mila dollari nel 1999 a quasi 40 mila nel 2011.
Questi numeri raccontano una storia semplice: i cinque Paesi in crisi non sono riusciti a vivere bene il primo decennio di vita della moneta unica europea. Due, Italia e Portogallo, perché sono rimasti congelati in termini di produzione e produttività ; gli altri tre, Spagna, Irlanda e Grecia perché hanno vissuto ognuno la sua forma di bolla che poi è scoppiata. E’ in questa cornice che vanno letti i dati strutturali riportati nella tabella di questa pagina, che poi sono i principali presi in considerazione dalla troika – gli inviati di Ue, Fondo monetario internazionale (Fmi), Banca centrale europea (Bce) – quando si mette l’abito grigio e pone sotto osservazione i governi che chiedono ufficialmente un aiuto.
Se si guardano i tassi di mercato sui titoli di Stato a dieci anni, si nota che, ieri, l’Irlanda garantiva rendimenti ancora elevati, attorno al 6,2%, ma più bassi di quelli spagnoli (attorno al 7,5%) e italiani (sopra al 6,3%). Secondo molti investitori, Dublino è infatti su una traiettoria economica e finanziaria abbastanza positiva. Innanzitutto, ha rispettato gli impegni che aveva preso quando ha ricevuto gli aiuti da Ue e Fmi, come ha certificato la troika pochi giorni fa. In secondo luogo, ha abbassato i salari ed è tornata competitiva, tanto che sarà  probabilmente l’unico dei cinque in crisi a crescere nel 2013 (nonostante il quadro dell’export sia in peggioramento).
In più, il governo di Enda Kenny punta a passare una parte di debito pubblico — 64 miliardi di euro sborsati per salvare le banche — al fondo di salvataggio europeo, come gli sarebbe stato promesso in occasione del bailout delle banche spagnole. Sarebbe un aiuto sostanziale che abbatterebbe significativamente il debito di Dublino, che sposterebbe cioè fuori dai conti pubblici parte degli effetti della bolla scoppiata. Il risultato è stato che, all’inizio di luglio, l’Irlanda è riuscita a tornare sui mercati, dai quali era rimasta assente per un anno, per finanziare con una piccola emissione a breve il suo debito. In altri termini, in Irlanda le ragioni della crisi — quelle che hanno abbattuto il Pil pro-capite dopo il 2007 — sarebbero in via di superamento e questo potrebbe aiutare il Paese a tornare in una situazione di semi-normalità  già  nel 2013. Cioè a produrre di nuovo ricchezza.
In questo quadro, l’Italia — come si vede dalla tabella — è il Paese, tra i cinque, che ha il deficit pubblico più basso rispetto al Pil e la crescita minore del debito. Anche in questo caso una traiettoria virtuosa, anche se non abbastanza virtuosa per ora. Il guaio serio sta nella crescita. Quest’anno l’economia si contrarrà , a seconda di chi fa le previsioni, tra il due e il 2,5%. E anche l’anno prossimo, soprattutto nei primi mesi, continuerà  a restringersi. Le ragioni che nel decennio scorso hanno tenuto sostanzialmente fermo il Pil pro-capite, dunque, permangono: si tratterà  di vedere quanto le misure per la crescita del governo Monti modificheranno la tendenza. Ma sembra evidente che prima di allora — cioè prima di vedere che la sclerosi economica che ha tenuto il Paese nell’immobilità  per dieci anni è superata — i tassi d’interesse rimarranno in tensione (al di là  di possibili immissioni di liquidità  da parte della Bce).
La geografia della crisi, insomma, è in movimento. E, a loro modo, i mercati spesso la fotografano: non è vero che sono ciechi e che non tengono conto delle specificità . Vorrebbero, per dire, un governo italiano che, dopo Monti, crei un ambiente favorevole alla crescita. E che non getti via anche i prossimi dieci anni.


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