Stop alla mega-fabbrica che avvelena la prima vittoria degli ecologisti cinesi

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Striscioni, dazibao affissi sui muri, decine di migliaia di persone scese per le strade a Shifang, una città  di oltre 200mila abitanti che contò migliaia di morti nel 2008, all’epoca del devastante terremoto del Sichuan che costò la vita a più di 80mila persone. La protesta si è scatenata contro la costruzione di un impianto per la lavorazione del rame e ha avuto inizio domenica: le autorità  cittadine hanno tentato di soffocarla prima con le buone poi minacciando “severe punizioni” contro chiunque si opponesse alla costruzione della megafabbrica, un progetto da un miliardo e mezzo di dollari che era stato approvato senza che ai residenti della zona venissero specificati i parametri di inquinamento e di rischio per la salute, come sarebbe d’obbligo in casi del genere.
Il risultato è stato l’intensificarsi delle proteste che hanno raggiunto il culmine lunedì e martedì quando la sede del comune è stata assalita, i funzionari ritenuti responsabili sono stati fatti oggetto di un’intensa sassaiole e i reparti anti-sommossa hanno attaccato i manifestanti lanciando bombe lacrimogene. Al momento la situazione sembra essersi calmata dato che le autorità  hanno annunciato la sospensione momentanea dei lavori, riservandosi comunque di svolgere indagini per scoprire i responsabili dei disordini e soprattutto chi ha lanciato l’allarme su Weibo, il Twitter cinese,
facendo conoscere la gravità  del caso della cittadina di Shifang in tutto il paese. In rete sono state pubblicate immagini di gente ferita, di anziani e bambini ricoverati negli ospedali, di automezzi della polizia rovesciati, di poliziotti che mostrano il dito indice ai cittadini, l’universale gesto di disprezzo.
La dimostrazione di Shifang non è che una delle centinanti e centinaia che vengono inscenate ogni anno per protestare contro l’assalto all’ambiente: l’estate scorsa aveva avuto vasta risonanza, anche se nessun successo, quella svoltasi a Dalian, nel Nord-est, per chiedere la chiusura e la rilocazione di un impianto chimico che ammorbava acque e aria rendendo impossibile la vita dei residenti. Allora la protesta fruttò soltanto alcune concessioni per l’installazione di impianti di depurazione, questa volta invece, a Shifang, il progetto di costruzione dell’impianto è stato fermato prima che venisse posata la prima pietra. Domenica, dopo che si era svolta con bandiere e banda la cerimonia per l’apertura del cantiere, tra i cittadini era circolata una petizione, firmata da migliaia di
persone, in cui si chiedeva che i lavori non avessero inizio perché «sarebbe inutile protestare quando la fabbrica è costruita. E chi di noi, abitanti di Shifang, ha
abbastanza soldi per trasferirsi altrove quando la nostra aria sarà  avvelenata? È indispensabile unirsi e lottare subito!».
E così è stato, la protesta è stata
massiccia e unitaria e ha destato scalpore soprattutto la decisione delle autorità  di scendere a patti, una novità  che lascia ben sperare, anche se a Shifang
nessuno ancora se la sente di cantare vittoria. «Gli interessi in gioco sono troppi, a livello centrale e regionale, dieci miliardi di yuan fanno gola a troppi» si leg-
ge su uno dei dazibao, giornali a grandi caratteri, mostrato su Weibo. «Dovremmo manifestare ancora contro la corruzione» si legge su di un altro in cui si ricorda quanti morti innocenti, soprattutto bambini delle scuole, si contarono quando il terremoto mise in luce come le nuove costruzioni, a Shifang come e in altre località  del Sichuan, fossero state fatte con “formaggio di tofu”, come si disse allora.
Tenuto conto degli interessi in gioco è difficile prevedere quale sarà  l’esito finale di questa manifestazione che è una delle tante che si succedono all’insegna del motto “non nel mio cortile” e che segnano una nuova consapevolezza ecologica in un paese che in trent’anni di sviluppo caotico e sregolato ha visto del tutto calpestate le anche minime misure atte a proteggere l’ambiente.
Sul caso di Shifang adesso sono puntati gli occhi di quanti in Cina (e sono tanti) si preoccupano del benessere delle generazioni future. Ora i lavori sono stati bloccati ed è intervenuto Ma Jun, direttore dell’Istituto per gli Affari pubblici e l’ambiente, organismo che di potere ne ha assai poco, tant’è vero che si è limitato a dire che «le autorità  avrebbero dovuto almeno convocare un’assemblea della cittadinanza per chiarire le conseguenze dell’impatto ambientale del complesso». Avrebbero dovuto e non lo hanno fatto. Comunque in Cina qualcosa sta cambiando, dal basso, non dai vertici.


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