Tra i ribelli della battaglia di Aleppo “Vinceremo, noi abbiamo Dio e loro no”

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ALEPPO â€” Nella moschea si sentono grida di «Dio è grande!». Un ritratto incorniciato mostra un uomo giovane in posa solenne e marziale, con un berretto rosso scuro. I funerali sono per Ahmad al-Fij, comandante 28enne dell’Esercito libero siriano, ucciso venerdì nella battaglia per Aleppo. La cerimonia è frettolosa, l’esercito siriano potrebbe riprendere i bombardamenti da un momento all’altro.
«Mio figlio era onesto e rispettabile, un patriota», dice Abdul-Rahman, il padre. «Questo regime sta usando il fuoco contro gli esseri umani, gli alberi, tutto». Ma potrà  essere sconfitto? «Assolutamente sì», risponde. «Noi abbiamo Dio, loro no».
Sarebbe avventato prevedere una rapida conclusione del sanguinoso conflitto siriano. I volontari delle milizie sono armati di kalashnikov, pistole di fabbricazione ceca e coltelli da caccia. Contro di loro è schierato uno Stato militare armato di elicotteri da guerra, carri armati russi e pezzi d’artiglieria. Eppure la sensazione è che i ribelli stiano vincendo, lentamente e inesorabilmente.
La battaglia per la città  più grande di tutta la Siria, Aleppo, è drammaticamente in bilico. I ribelli stanno combattendo strada per strada, contro un nemico che vomita morte dai cieli. L’Esercito libero siriano registra meticolosamente gli attacchi con i telefoni cellulari: la guerra di Siria è trasmessa in diretta streaming per la generazione di YouTube.
«La vittoria è prossima. Quasi metà  di Aleppo ormai è controllata dall’Esercito libero siriano», dice spavaldo Abdul Gabbar Kaidi, il colonnello che guida i ribelli nella battaglia. Kaidi è seduto nel suo quartier generale, un’ex scuola. «Loro (il regime, ndr) sono deboli. Non credono in se stessi», dice Kaidi. «Uccidono, stuprano le donne, distruggono il Paese. Noi stiamo combattendo per difendere la gente». L’esercito libero siriano sostiene di controllare circa l’80 per cento della Siria. Probabilmente è un’esagerazione, ma l’apparato militare di Damasco, duramente scosso dall’attentato della settimana scorsa, deve fronteggiare rivolte ovunque: Homs, Hama, Aleppo, Deir el-Zour. I ribelli sono riusciti a ritagliarsi un impero rurale, che abbraccia gran parte delle compagne e le aree di frontiera con la Turchia, a Nord e a Est. Qui c’è un paesaggio biblico di uliveti argentati, montagne brune e rocciose e ragazzini che portano a pascolare le pecore. Qui la situazione è relativamente calma.
Nel villaggio di Atma, vicino al confine con la Turchia, i civili siriani si spostano lentamente di notte, sotto un cielo stellato, oltrepassando di nascosto il confine. Nell’altra direzione affluiscono volontari. Un sergente barbuto dell’Esercito libero siriano registra i nuovi arrivati, ingannando il tempo, nei momenti di pausa, con la lettura del Corano.
«Sono tornato per vendicare mio padre», spiega un volontario 22enne, Ahmed Syri. Syri è cresciuto a Copenaghen. Suo padre lasciò il Paese nel 1982, quando Hafez al-Assad, il padre di Bashar, schiacciò un’insurrezione
dei Fratelli musulmani uccidendo migliaia di persone.
L’Esercito libero siriano ha assunto l’amministrazione di Atma a ottobre dell’anno scorso. Da quel momento ha conquistato sempre più territorio, impadronendosi delle province di Idlib e Aleppo, anche se le città  capoluogo rimangono nelle mani del regime, come gran parte delle altre città  siriane. Oggi Atareb, città  «liberata», è un campo di macerie. Solo qualche abitante è tornato. Il vecchio
suq era un letale covo di cecchini durante i combattimenti, ora è un intrico di vetri rotti e negozi distrutti. La bandiera rivoluzionaria sventola dall’alto della cittadella, con i suoi 2000 anni di storia.
I ribelli stanno facendo progressi sul piano tattico, ma non sembrano esserci segnali di massicci rifornimenti di armi pesanti dall’esterno. Soldati in divisa cachi cercano di mettere in moto a spinta la malconcia auto di Kaidi. Altri, radunati per andare a combattere ad Aleppo, stipano sacchi di plastica e granate per lanciarazzi nel bagagliaio di una berlina, poi partono per il fronte come se andassero a una gita fuori porta.
Il morale è alto, ma la paura è tanta. Abdullah, un ingegnere civile, colto e che parla inglese, prevede che la guerra si trascinerà  per mesi: «L’Esercito libero siriano sta diventando più forte. Ma il prezzo da pagare sarà  molto alto, senza un aiuto da parte dell’Occidente». Abdullah è fuggito da Damasco giovedì scorso, il giorno dopo che Assad aveva preso la drastica decisione di bombardare la sua stessa capitale. Lui e la sua famiglia sono partiti a bordo di tre macchine in direzione nord, verso la zona controllata dai ribelli, passando numerosi posti di blocco, del Governo e dell’opposizione.
«Il regime insiste che tutto è normale. Ma la rivoluzione è come un’enorme palla di neve che può distruggere tutto». Come molti siriani, Abdullah teme per il futuro del suo Paese: «Ora stiamo finendo in un buco nero. Nessuno sa che cosa succederà . Il regime comincia a cadere. La rivoluzione diventa sempre più forte. Ma mi chiedo: sono uniti?».
©Guardian La Repubblica (Traduzione di Fabio Galimberti)


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