USA Cento giorni al voto

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Cento giorni soltanto, per salvare la Casa Bianca dal ritorno della destra. Cento giorni tutti in salita per Barack Obama. Che si “reinventa” nel ruolo dell’outsider, fa una campagna quasi da leader dell’opposizione: centrata sulle debolezze di Mitt Romney, un “clone” di George W. Bush per le sue ricette economiche, uno che “ripropone lo stesso liberismo selvaggio all’origine della crisi del 2008”. È una sfida quasi impossibile, per Obama. Non guardate i sondaggi che lo danno in parità  con il rivale, quelle percentuali nazionali contano poco (il voto si decide Stato per Stato, nei collegi elettorali) e comunque tradiscono la fragilità  del presidente uscente. Più grave ancora è una statistica implacabile: nessun presidente degli Stati Uniti è stato rieletto con un tasso di disoccupazione superiore all’8%. Fu considerata miracolosa la conquista del secondo mandato da parte di Ronald Reagan nel 1984 quando la disoccupazione era al 7,4%. Ma allora era diffusa nell’opinione pubblica la sensazione di una netta ripresa. Oggi, al contrario, la recessione dell’eurozona rende quasi impossibile una sorpresa positiva. E il tasso di disoccupazione è inchiodato all’8,2%. Certo, non è una crisi “targata” Obama: scoppiò nel 2008 sotto l’Amministrazione Bush. Il presidente attuale ha probabilmente attutito il colpo, con la maximanovra di spesa pubblica da quasi 800 miliardi di dollari che fece passare al Congresso all’inizio del 2009:l’esattocontrario delle terapie di austerity che stanno affondando l’Europa. Obama avrebbe fatto anche di più, se non avesse perso la maggioranza alla Camera nelle elezioni di midterm, novembre 2010. Di fatto, ha governato con pieni poteri solo per un biennio. Ma l’elettorato ha memoria corta: sull’economia Romney è in vantaggio, dà  7 punti percentuali di distacco al presidente nell’ultimo sondaggio Nbc/Wall Street Journal.
Obama deve combattere contro un’altra regola ferrea, quasi implacabile nel ciclo elettorale americano. Per un presidente uscente che si ricandida, l’elezione si trasforma in un referendum su di lui, sul bilancio del suo governo. L’onta del mancato rinnovo metterebbe Obama nella triste (e sparuta) categoria dei perdenti: con Jimmy Carter travolto dalla crisi degli ostaggi americani in Iran, con George Bush padre che però concludeva 12 anni consecutivi di egemonia repubblicana. Se davvero è un referendum sul presidente uscente, come può Obama risalire la china? Rispetto all’entusiasmo inaudito del 2008, rispetto al clima da svolta storica di quattro anni fa, il bilancio che fanno i suoi sostenitori oggi è poco esaltante. Tra i “segni più”, Obamahafirmatol’eliminazione di Osama bin Laden (ma gli elettori hanno già  declassato l’evento, quasi che l’11 settembre fosse accaduto un secolo fa), ha mantenuto le promesse sui diritti dei gay
e ha inaugurato una politica dell’immigrazione più flessibile verso i giovani clandestini. Tra le delusioni: il potere distruttivo di Wall Street non è stato aggredito con la determinazione che usò Franklin Roosevelt dopo il crac del 1929; l’America non ha firmato nessun nuovo trattato internazionale contro il cambiamento climatico. A metà  strada tra la colonna dei più e quella dei meno, rimane in un limbo la riforma più importante, quella su cui Obama ha speso quasi tutto il suo “capitale politico” nel primo biennio: la sanità . Certo, ha esteso l’assistenza a quasi 30 milioni di americani che non l’avevano, ma fra questi non tutti gliene saranno
grati perché dovranno in parte pagarsela. I benefici della riforma non si vedranno prima dell’anno prossimo, mentre il pubblico tende ad attribuire (erroneamente) alla nuova legge le raffiche di aumenti tariffari imposti dalle assicurazioni private. Anche quella grande riforma, che ha passato il vaglio della Corte suprema, rivela nei suoi limiti quel “deficit di leadership” che la sinistra imputa a Obama. Il presidente non osò portare fino in fondo la battaglia contro il “capitalismo sanitario”, proponendo un sistema pubblico sul modello europeo. Molte delusioni della base più militante — giovani, neri, operai sindaca-lizzati, simpatizzanti di Occupy
Wall Street — nascono dalla sensazione di un presidente troppo incline alla mediazione, avverso allo scontro frontale. La riforma della finanza, la legge Dodd-Frank, giace in parte inapplicata per il sabotaggio dei repubblicani al Congresso che fanno mancare i fondi alle authority di controllo sulle banche: ma Obama non ha reagito proponendo una battaglia senza quartiere contro i banchieri. Un deficit di leadership si è avvertito perfino dopo la strage in Colorado. Il sindaco di New York Michael Bloomberg ha chiesto controlli nelle vendite di armi automatiche da combattimento. Obama a così poca distanza dal voto non se l’è sentita di sfidare apertamente una delle lobby più temuted’America,laNationalRifle Association che unisce possessori e fabbricanti d’armi.
Quanto gli giova la sua moderazione, per riconquistare consensi al centro? Qui Obama sconta una campagna feroce della destra, che dal Tea Party in poi si è spostata su posizioni sempre più radicali. Romney lo accusa di «importare lo statalismo europeo in America, per trascinarci alla bancarotta come Italia e Grecia». La riforma della salute è bollata come «socialismo sanitario». Una parte della destra — quella che ha alimentato la campagna diffamatoria su Obama “nato all’estero”, quindi usurpatore, eletto illegalmente — non perde occasioneper descriverlo come un alieno, antiamericano, pronto a «chiedere scusa al mondo intero» pur di umiliare il suo paese. Lo staff elettorale di Obama si è convinto che la sfida del 6 novembre può giocarsi sul filo del rasoio. La priorità  è arginare l’emorragìa, ricompattare la base più fedele, contenere i danni dell’astensionismo tra i “delusi”. Di qui la campagna “da opposizione”, con cui Obama tenta di rovesciare l’antica regola: trasfor-mando questa elezione in un referendum sul suo oppositore. È una campagna “negativa” ma efficace. Martella ossessivamente il messaggio sulla carriera di Romney nel private equity:
come numero uno di Bain Capital divenne multimilionario grazie alle operazioni spregiudicate da “capitalista-avvoltoio”: comprando aziende per smembrarle, licenziare dipendenti, rivenderle con lauti profitti. Consigliando ai suoi clienti di delocalizzare in Cina. Parcheggiando i suoi patrimoni su conti offshore alle isole Caimane. Romney dà  una mano al presidente con le sue reticenze: pubblica le sue dichiarazioni dei redditi col contagocce, per ora solo quelle degli ultimi due anni, quasi avesse da nascondere qualcosa.
Con questa tattica da “outsider”, Obama vuole anche riformulare la decisione del 6 novembre come una scelta di civiltà . Da una parte c’è l’America della finta meritocrazia, una nazione ormai dominata da ricchezze ereditarie (lo stesso Romney è figlio di un industriale), con una mobilità  sociale congelata, diseguaglianze crescenti, lobby capitalistiche sempre più prepotenti. Eleggere Romney equivale a un terzo mandato per George W. Bush, il presidente dei petrolieri e della deregulation finanziaria, della bolla dei subprime e degli sgravi fiscali ai ricchi. È una tattica spregiudicata che può funzionare: non a caso Bush evita accuratamente di farsi vedere, sarà  assente perfino alla convention repubblicana di Tampa, tanto la sua eredità  è considerata “tossica”. Ma la “scelta di civiltà ” comporta dei prezzi: i grandi donatori, dalla finanza all’industria, si spostano in massa a favore di Romney. Il divario nella raccolta di fondi elettorali si allarga, a sfavore del presidente uscente. Anche questa è un’anomalìa. Può pesare molto quando la “campagna negativa” entrerà  nella fase più feroce, con bombardamenti a tappeto di spot televisivi.


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