Addio a Neil Armstrong l’uomo che regalò al mondo la conquista della luna

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È morto ieri, a 82 anni appena compiuti, dopo un fallito intervento di bypass coronarico, in un ospedale di Cincinnati, la tranquilla, anonima città  dell’Ohio dove si era ritirato per fuggire dall’incubo della celebrità , della gloria. Soprattutto per dimenticare quella frase che dal 20 luglio del 1969 lo seguiva e lo ossessionava, il «piccolo passo» divenuto «il balzo gigante per l’umanità ». Parole che gli furono, spiegò, «dettate dalle circostanze, dal caso».
La Luna pesava sulle sue spalle, come qualcosa di troppo enorme per un uomo che rifiutava di considerarsi un nuovo Cristoforo Colombo delle stelle, un Marco Polo dello spazio. Quando finalmente, nelle rarissime occasioni in cui parlava in pubblico, impresa che lui aborriva, accettava di raccontarsi, rieccheggiava le celebri parole di sir Edmund Hillary quando rispose a chi gli chiedeva perchè avesse scalato l’Everest: «Perchè era lì, e io sono uno scalatore». «Non avevo chiesto io di andare sulla Luna, nè di essere il primo uomo a posare il piede su un corpo “stellare” che nessun altro aveva sfiorato prima di me. Ero soltanto il comandante della missione Apollo XI e toccò all’Apollo XI il compito di tentare l’allunaggio».
In altri uomini, parole come queste suonerebbero false e falsamente modeste. Ma la prova della misteriosa personalità  di un uomo che accettò di essere sparato in cielo sulla punta di un proiettile costato 28 miliardi di dollari di oggi, progettato e costruito con il lavoro di 400 mila tecnici, spinto da 160 milioni di cavalli – la potenza di oltre 160 mila motori da Formula Uno – fu nella sua vita dopo quella notte che tenne un miliardo di telespettatori con il nodo in gola per ora, prima che «The Eagle», il modulo lunare, si posasse. Mentre il compagno di «piccoli passi e grandi balzi» Buzz Aldrin, si offriva alla curiosità  del mondo, estroverso e spigliato, nella sua bella casa Californiana tra stelle del cinema e dello sport, Armstrong subì come un calvario le quarantacinque esibizioni pubbliche alle quali la Nasa e il governo, lo sottoposero.
«La mia impresa più dura non fu l’allunaggio, ma l’atterraggio» confidò al solo giornalista del quale si fidasse davvero, Walter Cronkite, l’«anchor» che aveva fatto la diretta delle ultime ore e che, al momento dell’appoggio finale dopo minuti di terrore per il fallimento del pilota automatico e il consumo abnorme del poco carburante, aveva saputo soltanto dire, strappandosi gli occhiali «Oh boy», «Oh Boy», ragazzi. Lo spedirono lungo la Quinta Avenue per la pioggia di coriandoli riservata agli eroi nazionali. Lo spedirono davanti alle Camere riunite, quelle che avevano stanziato i fondi per il progetto Luna lanciato con meravigliosa incoscienza da John Kennedy il 25 maggio 1961. Gli fecero incontrare la regina Elisabetta a Buckingham Palace («Una persona molto gentile» commentò il primo Lunauta della storia). Ma non lo lasciarono più fare la sola cosa che fin da quando aveva 16 anni e aveva preso la licenza di pilota prima ancora di quella di guida, voleva fare: volare.
Venne, conquistò e se ne andò come un’ombra, in quella tonalità  sbiadita di bianco, grigio e nero, che la televisione del tempo riusciva a trasmettere, uno spettro saltellante, Pierrot Lunaire, nella polvere di una fantastica conquista che alla fine non conquistò niente. Appena la Nasa lo dismise, per sua richiesta, ormai troppo anziano, a quasi 40 anni nel 1969, per tornare ad appontare sulle portaerei come pilota della Navy, a duellare con i Mig sovietici come aveva fatto in Corea o callaudare gli X15 da cinque volte la velocità  del suono, Neil si dissolse nel grigio profondo di quella sequenza. 
Tornò nella farm, la fattoria tra i lunghi gambi di granoturco nell’Ohio dove era cresciuto, costruendo modellini di aereo. Al sicuro finanziariamente, grazie alle molte corporations che lo avevano voluto nei consigli di amministrazione per il prestigio del nome, assunse una cattedra di ingegneria aeronautica nella Università  di Cincinnati, ignorando le offerte di college infinitamente più «glamorous» che se lo contendevano. Studentelli di 18 anni seguivano lezioni del primo uomo che avesse toccato la Luna, prima increduli e poi via via acconciati al suo essere un «prof» come gli altri, il professor Neil Armstrong, ex astronauta in pensione.
Alla Nasa si fece vedere sempre più di rado. I veterani e reduci della sua generazione, i «boys» delle missioni Gemini, Mercury, Apollo, lo irritavano, perchè, dirà  lui, «mi trattavano diversamente da prima», «mi guardavano come se fossi stato un monumento, un eroe che aveva fatto chissà  che cosa». Non si lamentò neppure mai, come invece avrebbero fatto gli altri undici viaggiatori della Luna, di non possedere neppure una sassolino, un ciotolo di quel satellite che la Nasa non ha mai voluto concedere a nessuno, con inspiegabile taccagneria, riservandoli tutti a musei o università . E la sola civetteria che si concesse fu una staccionata di denti nuovi e bianchissimi che tuttavia non convinsero la moglie a restare con lui, divorziata dopo trentadue anni di matrimonio nel 1995.
L’ombra che per 40 anni aveva camminato nei ricordi dell’umanità  e negli ostinati deliri di chi ancora oggi continuano a non credere a quell’evento come se non esistessero prove degli allunaggi, tornò carme per risposarsi, ma non necessariamente per trovare pace dall’immenso cono di luce della Luna. Ci sarebbe voluta una biografia, scritta da un altro con il titolo di «First Man», il Primo Uomo, e poi una struggente intervista televisiva con un grande giornalista, Ed Bradley, per scoprire quale fosse davvero la faccia oscura di questo uomo nascosto. Il ricordo di una bambina di due anni, sua figlia, uccisa da un tumore al cervello. Lui che aveva ronzato attorno ai crateri pilotando a mani un trabiccolo di stagnola chiamato Lem, Modulo di Allunaggio, senza sapere se gli sarebbe rimasto abbastanza carburante per ripartire e dunque morire la lenta morte dell’asfissia, non si era mai perdonato di non avere seguito i mesi, i pochi anni, la battaglia perduta dell’unica figlia femmina. Lo si vede mentre inghiotte le lacrime, ricordandola. «Ero troppo occupato nella fatica di arrivare sulla Luna», mormora. Maledetta la Luna che gli portò via una bambina.


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