àLVARO SIZA “TROPPE COSTRUZIONI E POCA ARCHITETTURA ECCO I GUAI DELL’ITALIA”

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Quando sono arrivate nella sua Porto, le notizie che il Museo Madre di Napoli versa in uno stato di triste agonia, gli hanno prodotto un grande senso di delusione. La ristrutturazione dell’edificio nel cuore antico della città  partenopea, a pochi passi dal Duomo, nella zona che conserva la struttura greca e romana, fu per àlvaro Siza un po’ di più che una sfida. Lui, architetto portoghese misurato e cauto, fu chiamato per attrezzare un palazzo storico a sede di un museo d’arte contemporanea. Il contemporaneo, e neanche il moderno, che entra in un centro storico. Non solo: Siza si propose di ricreare una connessione con la chiesa di santa Maria Donnaregina, alle spalle del palazzo. Negli occhi di ogni visitatore del Madre, dopo le opere di Francesco Clemente e Mimmo Paladino, dovevano restare impressi gli affreschi trecenteschi custoditi nella chiesa.
Siza, ottant’anni nel 2013, è stato insignito del Leone d’oro alla carriera dalla Biennale architettura che aprirà  i battenti a Venezia a fine agosto. È uno dei grandi nomi della scena internazionale, ha progettato edifici in Brasile e in Olanda, nel suo Portogallo e a Berlino, ma non ha i tic da popolarità  di molti suoi colleghi. Di quel lavoro a Napoli conserva un ricordo pieno di suggestioni intellettuali e di indicazioni per il suo lavoro. «A Napoli ho cercato di sparire e di non farmi prendere dalla voglia di lasciare un segno», spiega Siza. Eppure un segno è rimasto, troppo breve forse. Dopo l’apertura del museo, molti edifici di quella e delle strade vicine sono stati recuperati. Ora che del Madre non si conosce il destino, senza una guida, con gli artisti che ritirano le loro opere, fa ancora più effetto. «Un museo conserva il passato, ma rinnova la vita della città », è l’opinione del maestro portoghese.
Lei ha tanti cantieri in Italia. Come si trova a lavorare da noi?
«È molto complicato. È stimolante muoversi in mezzo a secoli di cultura e di storia. Il problema è che diverse iniziative vengono avviate, ma non si portano a termine. Si costruisce troppo e la parte riservata agli architetti è troppo poca. Il panorama è davvero poco entusiasmante. In Italia preferisco passeggiare».
Nella motivazione del premio della Biennale si dice che lei, «protetto dalla sua collocazione isolata», dal fatto di essere portoghese, di vivere in Portogallo, «emana una saggezza universale».
Lei si sente un isolato?
«No. Quando lavoro in altri paesi europei e anche fuori dal Vecchio continente, mi sento costantemente dentro un unico contesto. Che non è l’appiattimento della globalizzazione. E poi il Portogallo ha smesso di essere isolato quando nel 1974 si è liberato dalla dittatura fascista».
Che tipo di “saggezza universale” ritiene le abbiano attribuito?
«Andrebbe chiesto alla giuria che mi ha premiato. Se devo immaginare che cosa sia la saggezza per un architetto, direi che è l’attenzione ai luoghi e agli ambienti
in cui lavora».
Come vive l’architettura la crisi che flagella l’Europa?
«Più che l’architettura, occorre domandarsi come gli architetti vivono la crisi. Io penso con angoscia ai più giovani che nel mio paese o in Spagna non trovano lavoro e quello che avevano l’hanno perso. Conosco molte situazioni drammatiche nella zona di Barcellona, dove ho alcuni cantieri. Chi può va via. Ma ormai il lavoro si trova in Cina o in Corea».
Il suo Portogallo è fra i paesi più esposti.
«Sì. Ma dal mio Portogallo osservo quanto siano inappropriate le misure adottate per fronteggiare il collasso economico. L’aumento delle tasse deprime il consumo interno e non scalfisce la dittatura delle banche, che sono state finanziate con il denaro dei cittadini».
Una delle cause della crisi è la bolla immobiliare. Prendiamo il caso spagnolo: si è costruito troppo, troppe case sono rimaste invendute e tante banche, molto esposte, sono fallite. Un fenomeno simile potrebbe interessare anche l’Italia. Ci sono, secondo lei, responsabilità  degli architetti?
«Non credo. Gli architetti vengono incaricati da un committente. Possono rifiutarsi,certo. Ma in queste condizioni è sempre più difficile dire di no. E se qualcuno dice di no, l’imprenditore chiama altri architetti. Il problema non sono gli architetti, ma chi specula sulla risorsa del suolo».
L’architettura, però, può trovare soluzioni per venire incontro ai bisogni di una popolazione impoverita. O no?
«Può accadere fino a un certo punto. Certo, l’architetto dialoga con le persone, con chi abiterà  le case che sta costruendo. Suggerisce innovazioni. Ma il problema non è la mancanza di abitazioni. Il problema è che mancano le case per quella parte di popolazione più debole economicamente, che è sempre
di più in Europa. E questa carenza non possono risolverla gli architetti».
Perché molti architetti, anche in tempo di crisi, continuano a fare architettura spettacolare?
«C’è ancora domanda per quel genere di architettura, perché c’è una presenza ancora irresistibile di speculazione».
Quali sono gli aspetti che la convincono di più e quali che la convincono di meno nell’architettura europea?
«C’è buona architettura e meno buona architettura. Ma più di prima la qualità  dipende dalla committenza e da quanto gli architetti si lasciano condizionare. Si trova buona architettura a Londra, a New York, a Parigi.
Ma anche in Portogallo. Ora sto lavorando con molto profitto in Corea del Sud, dove si incontrano ottimi committenti, imprese di costruzione competenti e tanta fiducia nel futuro».
Lei è un architetto che ama ancora disegnare molto. Quanto conta il disegno in architettura e che futuro ha in tempi di informatizzazione travolgente?
«Nessun mezzo a disposizione di un architetto da solo è sufficiente. Sono tutti incompleti e complementari: il disegno è imprescindibile e persino lo schizzo rapido è insostituibile. Ma lo schizzo da solo, appunto, può essere ingannevole».
Si legge, sempre nella motivazione della Biennale, una citazione di Fernando Pessoa, dal Libro dell’inquietudine:
“Perché ho la dimensione di ciò che vedo e non la dimensione della mia altezza”. Che vuol dire per un architetto?
«A un architetto la frase di Pessoa ricorda quanto valga l’apertura verso l’altro e quanto questa sia più importante dell’attenzione su di sé. È una frase che sta a fondamento degli eteronimi di Pessoa».
Lei vede un futuro per il modello di città  europea oppure questo è destinato a essere travolto dal modello della megalopoli orientale o sudamericana?
«Non credo sia immaginabile per le città  europee una crescita delle dimensioni di Città  del Messico o di Mumbai. Lì valgono ragioni di spazio che da noi non si propongono. Inoltre, in quei paesi, l’emergenza economica spinge milioni di persone ad ammassarsi intorno ai centri urbani, anche quando questi non riescono a garantire nessuna sicurezza e nessun benessere. Le città  europee si espandono molto, troppo, ma il modello continentale non è stato distrutto».


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