Arte a tempo di guerra, Kabul scopre l’effimero

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KABUL – Quest’anno Kabul ha vissuto un evento speciale. Molto diverso dalle consuete cronache di guerra a cui siamo abituati. Dal 20 giugno al 19 luglio infatti gli splendidi giardini di Babur (Bagh-e-Babur), fatti costruire dal sovrano moghul all’inizio del 16esimo secolo, sono stati una delle tre sedi distaccate, insieme al Cairo e ad Alessandria d’Egitto, della tredicesima edizione di dOCUMENTA, forse la più famosa kermesse di arte contemporanea al mondo, la cui sede principale è a Kassel, in Germania
Alla base della decisione di coinvolgere anche la capitale afghana, il parallelo tra la Kassel del secondo dopoguerra, martoriata dai bombardamenti alleati, e la Kabul di oggi, ancora alle prese con le macerie vecchie e nuove, materiali e psicologiche, di una guerra a bassa intensità , che impedisce di progettare il futuro e costringe a praticare la difficile arte di vivere, piuttosto che di vivere e produrre arte. Oltre alle analogie storiche, una serie di interrogativi hanno mosso l’iniziativa, come ha spiegato sul numero di giugno della rivista Alfabeta la direttrice di dOCUMENTA (13), Carolyn Christov-Bakargiev, in un’intervista con Manuela Gandini: «Cosa vuol dire essere un artista sotto assedio? O essere in uno stato di ritiro? O ancora: essere sulla scena in uno spettacolo eterno? Uno spettacolo mediatico, perché qualsiasi cosa succeda lì viene riportata dappertutto».
Per rispondere a queste e ad altre domande, Christov-Bakargiev ha affidato all’italiano Andrea Viliani, membro del Core Agent Group di dOCUMENTA (13), e ad Aman Mojadidi la cura dell’esibizione in Afghanistan, ospitata nel Queen’s Palace, sulla sommità  dei Bagh-e-Babur. Proprio qui abbiamo incontrato Mojadidi, artista afgano-americano, nato a Jacksonville, in Florida, ma impegnato da molti anni a Kabul in attività  diverse, da quelle che rientrano nei cosiddetti progetti di sviluppo alle pratiche artistiche, spesso caustiche verso l’imprevedibile e mutevole commistione tra i valori «tradizionali» afghani e i modelli culturali «esogeni», importati dalla comunità  internazionale.
L’idea di includere Kabul nel progetto di dOCUMENTA (13), spiega Mojadidi, è venuta a Christov-Bakargiev quando, nell’estate del 2010, ha compiuto la sua prima visita in Afghanistan, insieme a un’equipe di ricerca che includeva tra gli altri l’artista messicano Mario Garcia Torres, il belga Francis Alà¿s (entrambi presenti nell’esibizione di Kabul), l’antropologo australiano Michael Taussig. Secondo quanto dichiarato da Christov-Bakargiev in un saggio recente, l’obiettivo era dimostrare che, «se è vero che la guerra produce fatti, anche l’arte può produrre fatti, dal valore superiore». Sin dall’inizio, racconta Mojadidi, «il gruppo degli organizzatori è stato comunque consapevole dei tanti rischi legati a un’idea simile»: in primo luogo, quello di condurre un’operazione che la stessa Christov-Bakargiev ha descritto come «potenzialmente pretenziosa e naà¯ve», trasferendo in un contesto di guerra le fin troppo ovattate atmosfere dell’arte internazionale. Per Abassim Nessar, giovane ricercatore, collaboratore dell’Aga Khan Trust for Culture in Afghanistan e manager del programma di dOCUMENTA (13) a Kabul, il rischio è stato felicemente evitato: «La contrapposizione tra valori intangibili, immateriali e valori tangibili e materiali esiste solo sulla carta – spiega nell’elegante sala da tè del Queen’s Palace -; non credo sia legittima la critica di chi dice che in Afghanistan servono solo risultati materiali come edifici, scuole, ospedali, etc. Come ricercatore all’università  di Leiden mi occupo di peace-building, e sono sicuro che la cultura rientri a pieno titolo tra gli strumenti più efficaci per far rinascere un paese in conflitto, rendendolo più pacifico».
La cultura, dunque, e in particolare l’arte, non come manifestazione effimera di un sistema chiuso in se stesso e impermeabile ma come esplorazione e costruzione di un immaginario che riesca a trascendere, o quantomeno a comprendere le ragioni e le radici del conflitto, che sia capace di aprirsi sul mondo, di interrogarlo criticamente e di suggerirne la trasformazione. È questo quel che rivendicano gli organizzatori di dOCUMENTA (13) a Kabul. Ma la cultura rimane anche uno strumento del potere. 
Per questo risulta più difficile replicare all’altra obiezione che è stata mossa a dOCUMENTA (13) nella sua veste afghana: quella di avallare, più o meno direttamente e consapevolmente, l’occupazione militare, di farsi strumento di propaganda e persuasione, per quanto esercitate con le armi sofisticate dell’arte, e per quanto gli intenti originari fossero opposti. Avendo lavorato a lungo nell’Afghanistan post-talebano a sovranità  limitata, Mojadidi è abbastanza smaliziato da riconoscere il pericolo, e sa bene che anche la cultura è stata spesso subordinata ai più prosaici interessi della comunità  internazionale: «Negli ultimi due, tre anni – spiega – la cultura è divenuta uno strumento essenziale per influenzare la percezione sull’Afghanistan. Alcuni paesi in particolare hanno deciso di puntare molto su questo settore, investendo quantità  considerevoli di soldi, penso per esempio alla Francia, alla Germania, al Regno Unito e anche agli Stati Uniti, che lo fanno non solo con Usaid (l’agenzia americana per lo sviluppo internazionale, ndr) ma anche direttamente con il Dipartimento di Stato». Una parte considerevole delle centinaia di migliaia di dollari distribuiti per realizzare film, documentari, progetti multimediali, sarebbe dunque orientata «a cambiare la percezione dell’opinione pubblica, per dimostrare che l’intervento internazionale ha avuto successo e che gli afghani vivono normalmente. Si tratta di una sorta di manipolazione, è innegabile», sintetizza Mojadidi. 
Gli organizzatori di dOCUMENTA (13) a Kabul hanno ragionato a lungo su questo circolo vizioso: «Da parte mia – racconta Mojadidi – sono convinto che se si decide di lavorare in Afghanistan è inevitabile stare dentro certi meccanismi. L’unico antidoto è quello di riconoscerli, di renderli trasparenti, di discuterne. Così abbiamo cercato di fare, creando un processo che non fosse importato dall’esterno o apparisse colonialista, ma che fosse il più possibile frutto delle specificità  locali». Proprio Mojadidi ha avuto il compito di facilitare i lavori degli artisti internazionali (tra cui molti afghani della diaspora, come Lida Abdal, Jeanno Gaussi, Barmak Akram e l’ottimo Khadim Ali) selezionati per l’esibizione a Bagh-e-Babur, a cui è stato chiesto di realizzare opere che nascessero dall’immersione, per quanto temporanea, nel contesto locale. Tra quanti sono stati coinvolti, l’artista polacca Goshka Macuga, autrice di un interessante collage fotografico digitale di quasi 12 metri per 3, ha criticato in un articolo di Martin Gerner per l’Afghanistan Analysts Network di Kabul «la presenza minacciosa dei militari, e la segregazione delle élite internazionali dalla gente ordinaria», lamentando l’impossibilità  di dare seguito al suo mandato. «Entrambi i lavori di Goshka Macuga, quello esposto a Kassel e quello qui a Kabul, sono ben riusciti – replica indirettamente Mojadidi -. Capisco le sue perplessità , ma credo che ci siano solo due soluzioni in questi casi: decidere di esporre, facendosi carico di tutte le incongruenze e le contraddizioni del caso, oppure rinunciarvi e boicottare, come ha fatto l’artista Natascha Sadr Haghighian, che avrebbe dovuto esporre e che invece ha preferito condurre soltanto uno dei nostri seminari».
L’esibizione di Kabul è stata infatti preceduta da una serie di seminari, tenuti a Kabul e a Bamiyan, la valle nota per la distruzione delle statue dei Buddha a opera dei Talebani. Abassim Nessar ricorda il workshop nato dalla collaborazione tra gli editori del magazine italiano bimensile Mousse eSepida, rivista culturale pubblicata molti anni fa in Pakistan da esuli afghani, rilanciata recentemente dal gruppo mediatico di Kabul «The Killid Group», grazie al lavoro di Ricardo Grassi, Najiba Ayubi e Shahir Zahine. «Quattro tra le circa 25 opere qui esibite sono state realizzate proprio da giovani artisti afghani che hanno partecipato ai seminari – racconta Mojadidi – si è trattato di una bella esperienza, condotta con l’atteggiamento più aperto e informale e meno paternalistico e pedagogico possibile. Sono anni che organizzo e partecipo a seminari d’arte: molti giovani artisti afghani credono di non dover essere influenzati dall’arte occidentale, ritengono che la cultura afghana sia pura, distillata. Pian piano riconoscono però che le identità  fisse non esistono, che ogni cultura è ibrida, e diventano curiosi». 
Curiosi come i tanti afghani che, soprattutto nei venerdì di festa, hanno affollato le stanze del Queen’s Palace nei Bagh-e-Babur: «È questo il risultato più importante – spiega Mojadidi. Nei venerdì di festa ci sono stati fino a 2.700 visitatori giornalieri. Ognuno con le sue particolari reazioni. Ma tutti accomunati dalla curiosità  di vedere qualcosa di nuovo». E tutti con nuove domande: «Perché se c’è qualcosa che l’arte contemporanea sa fare bene – conclude Mojadidi – è suscitare interrogativi, piuttosto che dare risposte». Tra gli interrogativi inevasi, ha ricordato il giornalista Martin Gerner, ce n’è uno particolarmente rilevante: è stata più utile dOCUMENTA (13) per Kabul e i suoi abitanti o Kabul per dOCUMENTA (13) e i suoi organizzatori in cerca di pubblicità ?


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