Battaglia in Rete sull’anonimato

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Non col mio nome. L’utilizzo del vero nome nei social network — ormai preteso da servizi come Facebook e Google+ — scatena la guerra nella Rete. Esiste infatti una ristretta (ma molto combattiva) cerchia di navigatori che si batte per il diritto all’anonimato. In difesa di tutti coloro che non possono usare la loro vera identità : dalle persone che vivono in Paesi che limitano la libertà  di parola fino agli individui che sono vittime, nella vita reale, di stalking, bullismo o pregiudizi sul loro orientamento sessuale. I conflitti — sempre più accesi botta e risposta online — nascono dalle linee guida che stanno dettando il social network di Zuckerberg e quello di Page e Brin, lanciato poco più di un anno fa da Google. Entrambi promuovono la real name policy. Chi vuole iscriversi ai loro servizi, insomma, deve fornire il suo vero nome. Per chi utilizza pseudonimi e soprannomi — a meno che non siano “certificati” da una discreta popolarità  online — c’è la sospensione dell’account. La logica aziendale è comprensibile: la maggior parte degli utenti usa i social network per stringere legami come farebbe nella vita reale. Cercando e aggiungendo amici/contatti attraverso il loro nome reale. È uno dei principali motivi per cui i navigatori hanno abbandonato MySpace e i suoi nickname in favore del sito creato da Mark Zuckerberg.
Non deve stupire, quindi, se c’è addirittura chi crede che in futuro i profili virtuali possano trasformarsi in valide carte d’identità  da esibire nel mondo reale. Tessere plastificate con il logo del social network, foto profilo, nome e cognome, nazionalità  e Qr Code per accedere immediatamente alla propria pagina per tutti gli ulteriori controlli. Così le ha pensate l’artista tedesco Tobias Leingruber, che ha creato un Social ID Bureau che gli utenti di Facebook possono utilizzare per generare il proprio “documento”. La sua era una provocazione, un modo per “denunciare” quanto sia in pericolo l’anonimato sul web, ma in molti l’hanno trasformata in uno status symbol da mostrare agli amici. E l’idea è stata subito ripresa dall’ingegnere Moritz Tolxdorff, anche lui tedesco, per dare vita alle Google+ ID Card.
Accanto all’entusiasmo per l’identità  reale sbandierata online scorre però la rabbia di chi non intende legare al proprio nome ogni singola azione effettuata sul web. Come chiede di fare, per esempio, YouTube in America. Da qualche settimana, infatti, i titolari di un profilo Google+ sono invitati a commentare i video usando il proprio nome e non più il nickname con cui sono registrati al popolare sito di video sharing. L’utente può ancora scegliere, il cortese invito si può rifiutare. Ma il «no» necessita addirittura di una giustificazione. Sei le opzioni che compaiono sul monitor: dalla più radicale, «non posso usare il mio vero nome», alla più semplice, «non sono sicuro, deciderò più avanti».
La gentile richiesta arriverà  anche nel nostro Paese — fanno sapere da Google Italia — ma non c’è ancora una data certa. Il tutto, secondo alcuni, si iscrive nella volontà  di Google di responsabilizzare gli utenti, nel tentativo di prevenire i commenti volgari e offensivi che, con la copertura dell’anonimato, abbondano su YouTube.
L’ipotesi regge. Anche se viene da pensare che i dati sui gusti musicali e sui video preferiti da utenti reali devono valere una fortuna. L’aspetto economico legato alla
real name policy non va sottovalutato: se la società  di Mark Zuckerberg naviga nell’oro, lo deve ai profili sempre più accurati creati dai suoi utenti. Le abitudini sul web di persone reali e identificabili si possono monetizzare. Gli pseudonimi, invece, non dicono nulla e non sono appetibili. Nella pagina ufficiale dedicata agli inserzionisti, Facebook è chiarissimo: «Scegli il tuo pubblico in base a posizione geografica, età  e interessi».
Per i crociati delle nymwars (c’è anche un’hashtag specifico da seguire su Twitter: #nymwars) le iniziative di colossi come Facebook e Google rappresentano tendenze pericolose. Chi vuole usare pseudonimi può sempre rifiutare di iscriversi e rifugiarsi in comunità  online numerose e anonime. Come 4chan o Twitter. Ma fino a quando? Esattamente un anno fa, in seguito ai London Riots, la polizia britannica ha chiesto proprio a Twitter di prendere in considerazione l’idea di forzare i propri utenti inglesi
a utilizzare i loro veri nomi. Da marzo scorso, invece, i navigatori cinesi che si iscrivono a social network simili a Twitter — tra questi Weibo è uno dei più popolari — devono farlo fornendo il proprio vero nome. Una norma simile è stata introdotta (e poi ritirata quasi immediatamente) anche in Corea del Sud nel 2007. Anche i governi, dunque, non perdono occasione per dichiarare guerra agli pseudonimi sul web.
E così chi vuole passare inosservato sul web — continuando ad accontentare i “padroni” dei social network — ricorre a un sito molto popolare: Fake name generator. Si sceglie la nazionalità  del nome, il paese di residenza, il sesso e la fascia d’età  (o l’età  precisa) desiderata. E il sistema genera un nome e cognome seguito da informazioni dettagliatissime: dall’indirizzo al numero telefonico fino al gruppo sanguigno e al numero di carta di credito. Dati falsi che si possono spendere online per essere — paradossalmente — più credibili.
C’è una celebre vignetta del 1993, realizzata da Peter Stainer per il New Yorker, che riassume alla perfezione il concetto di identità  sulla Rete. Nel disegno ci sono due cani. Uno guarda scettico l’altro, seduto davanti a un computer. E sotto di loro la fulminante sentenza: «On the Internet, nobody knows you’re a dog / Su Internet nessuno sa che sei un cane». Erano i primi anni Novanta, poco prima dell’esplosione del web. Un tempo in cui davvero ci si poteva aspettare (e immaginare) di tutto all’altro capo della connessione. Oggi molti cani hanno una pagina su Facebook. Ma spesso usano il loro vero nome.


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