Buone leggi cattivi esecutori

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La riflessione di Asor Rosa sui rapporti tra difesa dell’ambiente e avvio di un nuovo modello di sviluppo, e le riflessioni che avete saputo proporci sulla svolta impressa alla epocale vicenda Ilva di Taranto, mi spingono a portare l’attenzione su due elementi che il pensiero e la pratica ambientalista italiani hanno portato nella politica. 
Primo: la riflessione non può più focalizzarsi soltanto sui temi generali ma deve addentrarsi su quali sono gli elementi istituzionali e amministrativi che ne sostengono l’inverarsi. Due: nell’esempio specifico delle bonifiche, quindici anni di applicazione della normativa, condotta in contrasto con lo spirito originario, hanno portato alla sostanziale paralisi del settore ed esigono una riflessione sui passi successivi.
L’impegno che portò alla scrittura della prima normativa italiana sulla bonifica dei siti inquinati era parte di un’ampia azione del primo governo Prodi per sostenere il rinnovarsi del rapporto tra sviluppo industriale e strumenti della tutela ambientale e sanitaria. Anche nello scrivere il testo sulla bonifica furono impegnate elevate competenze scientifiche, amministrative e istituzionali. Dando forma normativa e istituzionale a una visione dei rapporti produzione/ patrimonio collettivo/salute alla cui definizione l’ambientalismo italiano, nelle sue diverse componenti, si era impegnato fin dalla fine degli anni sessanta (e tra tutti ricordo Laura Conti, al cui pensiero mi sento più affine). 
Si ricercarono le soluzioni per dare forma e sostanza al concetto di patrimonio comune: la tutela di suolo, acque sotterranee, salute dei lavoratori e dei cittadini più esposti, paesaggio, il concetto di ripristino. Con l’intenzione di invertire gli effetti dell’industrializzazione senza cuore e senza piani che aveva caratterizzato l’Italia dal primo dopoguerra, di attuare le bonifiche impegnando lo Stato senza dissanguarlo e di coinvolgere nelle operazioni tecnologiche e nel finanziamento i «responsabili». Obiettivo non secondario fu far nascere il settore industriale della decontaminazione e creare occupazione anche nel settore dei servizi «sofisticati». 
La norma con limiti, vincoli, e punti da modificare, questo richiedeva e permetteva. Ricordiamoci inoltre, per capire la difficoltà  del compito, quando invochiamo vaghi e inesatti paragoni con l’estero, che questa è rimasta una delle pochissime normative compiute nel panorama europeo, per non parlare del panorama globale, a cui inoltre si è cercato di dare applicazione concreta.
Le buone normative ambientali sono caratterizzate da elevata complessità  perché sono una miscela di necessità  scientifiche, di conoscenze tecnologiche, di visione istituzionale e di pratica amministrativa. Complessità  dimostrata dalla difficoltà  che ognuno di noi ha avuto nell’assumere una posizione, quella informata non quella di getto, rispetto alla scelta dei giudici di mettere sotto sequestro gli impianti dell’Ilva di Taranto. Inoltre la complessità  di redigere e far applicare una procedura Aia in un sito contaminato di interesse nazionale non è seconda a niente.
La normativa sulla bonifica intendeva stimolare l’attivarsi in tutto il paese, da parte dei soggetti sia privati che pubblici, di una profonda conoscenza scientifica del funzionamento dell’ambiente, della diffusione degli inquinanti e di quali sono le operazioni da avviare per conquistare il risanamento, la tutela ambientale e sanitaria futura, uscendo dalle semplificazioni dell’allarmismo. Richiedeva inoltre, con piena consapevolezza, l’assunzione di responsabilità  istituzionale e soggettiva degli Enti e dei funzionari coinvolti: perché è dimostrato in tutto il mondo che solo l’impegno e la competenza pubblica possono sopperire e superare gli interessi particolari delle singole attività  produttive e renderle adeguate agli standard di qualità  identificati per la tutela di un territorio e di una popolazione.
Questa prima sfida è stata persa: l’ambientalismo e la migliore pratica amministrativa l’hanno già  combattuta e l’hanno già  persa. Necessità  ora la disamina precisa del perché questo sia accaduto.
A quindici anni da un’azione di governo che aveva cominciato a mettere le basi per l’evoluzione del rapporto tra normativa e sviluppo produttivo e scientifico del paese, vorrei puntare l’attenzione su alcune domande che quella stagione ha reso possibile e che qualunque soggetto politico, che si candidi a governare, deve essere in grado di analizzare e risolvere ora.
Quali sono gli elementi normativi che danno efficacia alla conoscenza scientifica e all’azione dei tecnici, dei settori pubblico e privato, e li mettono in grado di assumersi rapidamente le proprie responsabilità , di approvare o meno le specifiche attività  produttive, valorizzando le ragioni specifiche delle comunità  e dei lavoratori?
Perché alle Conferenze dei Servizi a livello nazionale si è permesso che per oltre dieci anni si approvasse un numero ridicolmente basso di Piani di Caratterizzazione tra le centinaia presentati? Perché non si è spinto per far approvare e attuare i progetti definitivi di bonifica che presentavano la qualità  adeguata? 
I pochi progetti approvati hanno incrementato l’operazione che la normativa originale (e la successiva modifica) cercava di impedire, essendo ben noto da allora l’attivismo dell’ecomafia: il trasporto dei suoli e dei rifiuti inquinati in giro per l’Italia. Si sono visti invece progetti in cui i sedimenti contaminati da Napoli avrebbero dovuto migrare a Piombino.
Com’è potuto succedere? Che non sia stato perché tutti, tutti, i governi successivi hanno creduto che le operazioni di bonifica sarebbero state una palla al piede per il settore dell’industria chimica e della raffinazione? Pur a fronte dei finanziamenti pubblici e privati mobilizzati e dello sforzo di organizzazione tecnico-scientifica che la normativa aveva compiuto. Credo anche che sia mancata fiducia nella capacità  delle amministrazioni e agenzie di controllo ambientale locali di sostenere questo percorso. 
Quali sono state le incertezze scientifiche, politiche, sociali che hanno fatto si che gli amministratori locali abbiano preferito assecondare centralistici e faraonici piani di risanamento e Accordi di Programma che per astrusa complessità  sembrano il testamento di un burocrate babilonese? Configurando un rapporto di sudditanza della periferia verso il centro, certamente dettato dalla rincorsa ai finanziamenti ma non sostenuto dalla capacità  di influenzare il come spenderli. Infatti la stessa ricetta – il confinamento con un muro di argilla sotterraneo – è stata applicata in siti con caratteristiche completamente diverse. Con l’opposizione di pochi tecnici e amministratori che avevano a cuore la diversità  del territorio amministrato. Avete presente qual è il rapporto tra efficacia di risanamento -quasi nulla – e costi – stratosferici – di questa ricetta imposta come un salasso medievale alle casse della bonifica italiana?
La sfida persa avrà  però effetti sulle bonifiche che saranno condotte con criteri decisi nel passato: scelte interpretative che oggettivamente hanno rallentato le decisioni ingigantendo il percorso amministrativo e creando la confusione di innumerevoli documenti progettuali. Ben altra qualità  documentale e chiarezza decisionale era resa possibile dalla normativa..
La complessità  del caso Ilva e la gravità  dei danni perpetrati richiedono di integrare la normativa sulla bonifica a quella dell’Aia, facendole procedere di pari passo, di mantenere unicamente le fasi amministrative necessarie ed eliminare gli interventi tecnici che non rispondano alla specificità  locale, di entrare nel dettaglio della valutazione dei progetti esistenti, ora presentati come prioritari, e dell’assegnazione delle spese alle diverse operazioni. In questo caso, la discontinuità  amministrativa e tecnica può essere di aiuto.
* Chimica Ambientale


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