Il Sud «selvaggio» di Arbasino

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Per prima cosa, nell’affrontare un nuovo Alberto Arbasino, si deve fare i conti con il titolo (Pensieri selvaggi a Buenos Aires, Adelphi). Perché sono «selvaggi» i pensieri che lo affollano, e perché proprio «a Buenos Aires»? Darsi la seconda risposta è più semplice: questo è il diario di un viaggio compiuto nel 2008 e consacrato — nell’allora centenario della nascita di Claude Lévi-Strauss — a quel Sud America che ispirò al celebre antropologo francese il saggio epocale Tristi tropici, ambientato in Amazzonia. La ragione di quel «selvaggi», invece, è sfaccettata. «Selvaggia», e tipicamente arbasiniana, è la forma della narrazione, che procede per salti e illuminazioni: brevi paragrafi evocativi in cui l’autore lascia agire le parole seguendo quasi il filo della scrittura automatica, sempre sorvegliata però da una sapienza enciclopedica, ironica, poliglotta. Persino il punto di partenza — le impressioni lasciate dai suoni esotici negli anni immaginifici dell’infanzia — è uno sberleffo a ogni pretesa di realismo: «Nomi come caramelle Novecento: Arenal, Arsenal, Alcà¡zar, Alcatraz, Amapola, Pensacola, Capataz. Diablo. Retablo. Olé». L’aggettivo «selvaggio», poi, allude alla definizione del pensiero primitivo codificata a suo tempo da Lévi-Strauss. Basato cioè su quelle grandi contrapposizioni elementari che per decenni avrebbero fatto la gioia del pensiero strutturalista: natura contro cultura, caldo contro freddo, crudo opposto al cotto, duro antitetico al molle, e poi grande e piccolo, destra e sinistra, zucchero e caffè, tabù e libero amore… Opposizioni poi destinate a trasferirsi nel linguaggio corrente e colto dell’Europa, sotto forma di «alto, cioè elitario», «basso, quindi di massa», «midcult, dunque di consumo borghese», e via definendo. «Selvaggio», infine, è l’impatto esercitato sui sensi del narratore dal ruvido Sud America: il gusto della «coda di caimano alla griglia» o dei «colibrì e pappagalli arrostiti e flambés al whisky», non meno delle «fragranze maschili sauvages per barbudos hirsutos», dei «tanghi indimenticabili in romantici localini abbastanza prevedibili» e — perché no? — delle affissioni di profferte erotiche. Queste ultime, sentite come un antidoto alla nostra perbenistica, europea correttezza di costumi: «Buscaria, gustaria, me encanta, el erotico fruncir de cada orificio… Altro che le coppie in crisi e gli intellettuali in crisi e le affettuose nostalgie da bestseller nostrano per gli antichi sapori della nonna e gli odori della zia». Così, di libera associazione in libera associazione — o per dirlo in castigliano con l’autore: lasciandosi condurre dal recuerdo encubridor — Alberto Arbasino si muove fra il borgesiano quartiere Palermo di Buenos Aires e i teatri lirici semiabbandonati di Lima o Rio, inseguendo «sfrenati e spropositati gran lussi rasserenanti e consolatori», le Carmen Miranda e le Dolores Del Rio, i «vistosissimi milionari uruguaiani e peruviani» di un dopoguerra scomparso, oltre naturalmente alle reincarnazioni di Evita Perà³n «in perfetta toilette nera» e con l’Ordine di Isabella la Cattolica; imbattendosi però nel triste declino della società  sudamericana, nella decadenza di ogni suo ordine e grado. Ed è infatti la tristezza, appena mitigata dall’ironia, dal gusto scanzonato per la citazione e per l’eccesso, la nota dominante di questo vagabondare. Non solo in omaggio ai Tristi tropici di Lévi-Strauss, luoghi amazzonici irreparabilmente lasciati ai margini della futura globalizzazione. La tristezza argentina, brasiliana, peruviana incontrata da Arbasino è piuttosto uno stato d’animo, affine al gusto ottocentesco per le rovine che attanagliava i grandi viaggiatori durante i Gran Tour. Si manifesta nei degradi dei quartieri-discarica con le viuzze intitolate a Moravia o Buzzati, nella visita al fatiscente teatro Colà³n di Buenos Aires, frequentato ormai soltanto da «decine di simil-Borges molto distinti e in ordine», nello sfascio dei quartieri un tempo benestanti di Montevideo dove «erompono radici violente come in Cambogia», e soprattutto negli innumerevoli e inutili cartelli sparsi dappertutto, dove il primato se lo contendono da un lato le scritte inneggianti a una qualche rivoluzione e dall’altro gli annunci «in vendita» destinati ad andare deserti. Povertà , insomma; appena mascherata qui e là  dal solito trionfo globale di computer e chincaglieria elettronica per adolescenti, e il cui simbolo perfetto si ritrova forse a San Paolo, con il «mitico palazzone ondulato di Oscar Niemeyer» che se ne sta «triste, solitario y final», scrostato e tradito dai suoi abitanti. Il tutto, però, è raccontato senz’ombra di alterigia neocoloniale, molto parco nell’assegnare etichette di kitsch o camp o cult a luoghi e personaggi. È così che va il mondo, sembra suggerire Arbasino, o almeno così io lo vedo: un «triste Ferragosto invernale di questo tristissimo emisfero australe». Salvo che, come ricorda in chiusura, cedendo la parola a Luis Borges, «le opinioni di uno scrittore non contano», importa soltanto se è capace di «sognare sinceramente». E di che dovrebbe preoccuparsi, dunque?


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