In Italia la pena di morte si chiama carcere

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Non si fa in tempo a tirare le somme, che già  bisogna aggiornare il totale. Di nuovo. Perché nel frattempo un’altra vita si è spenta dietro le spesse mura di una prigione. Dall’inizio dell’anno è accaduto già  96 volte, praticamente un morto ogni due giorni e mezzo, di cui oltre un terzo per suicidio. Luglio il mese più nero con sei detenuti impiccati e altri cinque deceduti per non meglio precisate “cause naturali”; un morto nel carcere di Siracusa dopo 25 giorni di digiuno, un internato dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto asfissiato con il gas e un altro ucciso ad Aversa da un compagno di cella che gli ha dato fuoco. Il bilancio mensile più pesante degli anni Duemila.

Da quando, cioè, l’osservatorio di Ristretti Orizzonti ha iniziato la triste conta delle morti dietro le sbarre in Italia, arrivando a registrare più di 700 suicidi e oltre duemila decessi: il bollettino di una quotidiana guerra per la sopravvivenza. Combattuta da migliaia di detenuti in carceri sovraffollate al punto da potersi definire illegali, contro condizioni di vita degradanti imposte da uno Stato, il nostro, incapace di rispettare le sue stesse leggi e i diritti umani fondamentali. E per questo ripetutamente condannato dalla giustizia internazionale.

Le statistiche suggeriscono che in carcere ci si ammazza venti volte in più che fuori, ma secondo il governo non è possibile stabilire un rapporto di causa-effetto tra il sovraffollamento carcerario e l’aumento dei suicidi. Ovvio. Nessuna formula matematica potrebbe mai decretare una relazione di questo tipo, tuttavia sarebbe miope, oltre che disonesto, negare che esseri umani costretti a stare come bestie – prede dell’ozio forzato in spazi malsani e inferiori a quelli che la legge garantisce ai maiali negli allevamenti – siano tentati più di altri dall’idea della morte come soluzione e termine delle proprie sofferenze.

Attualmente negli istituti di pena italiani oltre 66 mila persone si trovano recluse in celle che, secondo il ministero della Giustizia sarebbero sufficienti al massimo per 45 mila di loro. Ma sebbene negli ultimi anni il tasso di sovraffollamento carcerario sia aumentato, fino a toccare punte del 150 per cento, i dati ufficiali relativi alla capienza regolamentare sono aumentati. Una moltiplicazione “miracolosa”, dovuta al semplice fatto che nel tempo anche gli spazi comuni sono stati adibiti a celle, obbligando così detenuti a stare chiusi a chiave per 20 o 22 ore al giorno. Privati di quasi tutte le attività  cui ciascuno di loro dovrebbe poter accedere, perché rappresentano uno strumento per perseguire la finalità  rieducativa della pena sancita dalla Costituzione.

Troppi corpi, insomma, in troppo pochi metri quadri. Nonostante la normativa europea disponga che ogni detenuto ne abbia almeno 7 in una cella singola e 4 in una multipla, e affermi che al di sotto dei 3 metri quadri la detenzione si traduce in un trattamento inumano e degradante che viola l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani: quello, per intenderci, che proibisce la tortura. Ma qui da noi questa è considerata roba d’altri tempi e infatti sono 25 anni che l’Italia si sottrae all’obbligo di introdurre il reato di tortura nel proprio codice penale. Così i detenuti se ne stanno accalcati gli uni sugli altri, costretti a fare i turni per mangiare intorno a un tavolo e perfino per stare in piedi e sgranchirsi un po’ le gambe, mentre gli altri attendono sulle proprie brande. Con pochissime possibilità  di lavorare e quindi di guadagnare. Spesso imbottiti di psicofarmaci che in carcere non solo vengono di rado rifiutati, ma sono prescritti con generosità  al tacito scopo di sedare il malessere. Fino quasi a diventare un metodo di controllo preventivo, che ingrossa le fila dei dipendenti da sostanze. Mentre i tossicodipendenti continuano a rappresentare un terzo della popolazione detenuta: migliaia di uomini e donne, per lo più giovani, che invece di marcire in galera in stato di abbandono, dovrebbero per legge trovare accoglienza e assistenza presso una comunità  terapeutica. Con un congruo risparmio per le casse dello Stato, visto che un detenuto in cella costa 220 euro al giorno e in comunità  solo 60. Ma la strategia dei tecnici, in tempi di crisi economica e spending review, è ancora quella di tagliare le già  ridicole risorse del sistema penitenziario, il personale trattamentale e di polizia da tempo fortemente sottodimensionato. Insomma, il colpo di grazia a un moribondo, denunciano i sindacati.

La crisi dell’universo carcerario è come un devastante incendio estivo. Uno di quelli che si estendono rapidamente e a perdita d’occhio incenerendo tutto ciò che incontrano sul proprio cammino. Ad andare in fumo nelle nostre galere è però l’esistenza di centinaia e centinaia di esseri umani, che se non si ammazzano quantomeno ci provano, o si fanno volontariamente del male per esprimere un disagio insostenibile, denunciare un torto, rivendicare un diritto. O anche solo per attirare l’attenzione. Secondo il dossier “Eventi critici” stilato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, nel 2010 si sono verificati quasi 6 mila episodi di autolesionismo, dei quali circa il 15 per cento di detenuti stranieri. I tentati suicidi sono stati 1137 e la frequenza maggiore in questo caso è tra coloro che sono in attesa di giudizio e che nel nostro paese rappresentano il 42 per cento della popolazione detenuta. Un’odiosa anomalia tutta italiana che, in base alle statistiche, vede oggi reclusi nelle patrie galere circa 14 mila innocenti, a scontare una pena ingiusta e in condizioni – come abbiamo visto – di conclamata illegalità .

E dopo i politici che hanno soffiato sul fuoco, riempiendo le galere in nome della sicurezza, cosa fa il governo dei tecnici per spegnere l’incendio? Ben poco. Si culla nei risultati pallidi, se non risibili, di un provvedimento battezzato col nome beffardo di “svuota carceri”, utile solo alle frange estreme del giustizialismo che hanno potuto gridare all’indulto mascherato; e la “corsia preferenziale” auspicata dal Guardasigilli Paola Severino per il disegno di legge delega sulle misure alternative al carcere si è finora rivelata tutt’altro che veloce. Senza contare che dal testo all’esame della commissione Giustizia della Camera è stata stralciata la parte relativa alle depenalizzazioni. Così, mentre la legislatura si avvia rapidamente alla conclusione, il tema della crisi delle giustizia e la sua drammatica appendice carceraria, che avrebbero dovuto costituire una priorità , rischiano di finire ai margini dell’agenda di governo. E pure il presidente della Repubblica Napolitano sembra aver rimosso quella “prepotente urgenza” da lui stesso sollevata un anno fa, in occasione del grande convegno organizzato dal Senato con il Partito Radicale, mentre la Corte europea dei diritti dell’uomo – sommersa da 1200 ricorsi solo di semplici detenuti – si prepara a emettere una sentenza pilota per denunciare le carenze strutturali dell’Italia in materia.

Il tutto nel silenzio più totale dell’informazione, che del carcere ignora i morti e anche i vivi. Quelli che a decine di migliaia solo poche settimane fa hanno digiunato nelle proprie celle che con il leader radicale Pannella per chiedere un’amnistia, utile soprattutto allo Stato per uscire dalla bancarotta della giustizia e rientrare rapidamente nella legalità .

Ma le rivolte, si sa, quando non sono rumorose e violente non fanno notizia. Quella cui si assiste nelle nostre prigioni è infatti una prova silenziosa e composta del grande senso di responsabilità  dei detenuti, grazie al quale la polveriera penitenziaria non è ancora scoppiata. Ancora resiste, sì, grazie ai criminali.


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