L’autunno di tutti i rischi

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Grazie alle dichiarazioni di due dei massimi responsabili del destino della moneta unica, i mercati del debito sovrano sono riusciti a mantenere un po’ la calma durante il mese di agosto. Il primo a parlare è stato Mario Draghi, che alla fine di luglio ha dichiarato che la Bce era pronta a “fare tutto quello che è necessario” per garantire la sopravvivenza dell’euro, palesando la prospettiva di un intervento massiccio della Banca europea sui mercati per contenere entro limiti tollerabili i tassi d’interesse di Italia e Spagna. In seguito, giovedì scorso, la cancelliera tedesca ha dissipato tutti i dubbi relativi all’appoggio da parte sua alle garanzie presentate dal presidente della Bce, che lei considera “perfettamente in linea” con la sua concezione della situazione. Ma allora, perché mai prevedere un “settembre nero” per la crisi dell’euro? Perché l’Europa, da due anni a questa parte, passa di “vittoria” in “vittoria”, fino alla sconfitta successiva? Perché dietro questa momentanea bonaccia estiva i mercati continuano a dubitare fortemente che la moneta unica possa sopravvivere? A quelle due spiegazioni – che la realtà  si è presa la briga di confermare – si sono aggiunti segnali ancora più preoccupanti: l’Europa è in procinto di perdere la battaglia politica che dovrà  decidere del suo futuro. E il mese d’agosto è stato particolarmente ricco di segnali in questo senso. All’inizio del mese, in un’intervista ormai famosa rilasciata allo Spiegel, Mario Monti ha riassunto così le sfide del momento: “Le tensioni che da anni accompagnano l’eurozona hanno già  i connotati di una disgregazione psicologica dell’Europa” […] Nel caso in cui l’euro diventasse un fattore di divisione europea, allora verrebbero distrutte le fondamenta stesse dell’Europa”. Gli eventi avrebbero dato ragione a Mario Monti, mettendo in evidenza in maniera pressoché irrefutabile che i mercati non sono gli unici a non credere nella sopravvivenza dell’euro. In occasione dell’ennesimo episodio in questo senso, il ministro degli esteri finlandese ha ammesso ufficialmente che il suo governo aveva elaborato un piano operativo per far fronte a un’eventuale implosione dell’unione monetaria. Le rapide smentite che si sono susseguite da parte del governo di Helsinki, che ha assicurato che quella non è la sua politica ufficiale, non sono servite a molto: la Finlandia ormai si chiede apertamente se deve lasciare l’euro o no. A differenza di quanto accade in Germania, in Finlandia le cose si possono dire con maggiore chiarezza, in quanto le eventuali ripercussioni sono di gran lunga meno pesanti. In Germania, tuttavia, si è sentito il ministro dell’economia dichiarare che l’ipotesi di un’uscita della Grecia dall’euro non è più inammissibile. Si sono visti parecchi personaggi di primo piano della Cdu-Csu scandalizzati per la “sfacciataggine” del presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncker, che ha avuto l’ardire di dichiarare che la Germania aveva la sua parte di responsabilità  nel peggioramento della crisi dell’euro, allorché ha posto una semplice domanda: “La Repubblica federale non sta forse trattando la zona euro come una sua filiale?”. È sufficiente dare un’occhiata ai titoli della stampa tedesca per non farsi più illusioni sulla gravità  dei “pregiudizi” di cui parlava Mario Monti sullo Spiegel e dei rischi di questa “disgregazione psicologica” dell’Europa dalla quale metteva in guardia. Tutti sembrano auspicare un ritorno della “cancelliera di ferro”. Contro la Grecia, che chiede più tempo. Contro la Bce, disposta a iniettare altri soldi nei paesi “inadempienti”. Contro la Francia, che vuole garantire il benessere dei suoi pensionati a discapito dei contribuenti tedeschi. In altri paesi del nord il clima politico non è molto diverso. Al sud, tutto sta a capire fin dove può spingersi l’austerità  senza annientare l’idea stessa di Europa, o fin dove può arrivare “l’umiliazione” politica determinata da un intervento di soccorso in extremis che gli elettori sono pronti a tollerare. Ancore di salvezza Naturalmente esistono due “ancore di salvezza” a fronte di questo rischio di disgregazione politica accelerata dell’Europa, e i massimi dirigenti di Bruxelles vi si appigliano. La prima altri non è che la stessa Angela Merkel. I più sono convinti infatti che la cancelliera sia assolutamente determinata a salvare l’euro, in quanto questo è l’interesse della Germania. Tuttavia, sussiste un dubbio: fino a che punto potrà  spingersi la cancelliera per armonizzare i due obiettivi che paiono motivarla, salvare l’euro e impedire l’ascesa nel suo paese di un partito della destra nazionalista, come in Finlandia o nei Paesi Bassi? Alcuni osservatori la reputano maestra nell’arte di barcamenarsi lungo questa rotta sempre più stretta e perigliosa. Altri ritengono invece che il clima dell’opinione pubblica tedesca abbia ridotto pressoché a zero il suo margine di manovra e pertanto occorrerà  attendere le legislative di settembre perché una “grande coalizione” con l’Spd le ridia la capacità  di fare, in Germania, ciò che si deve fare. La seconda ancora di salvezza, la più evidente, si riduce alla questione politica essenziale che dovranno porsi tutti i governi della zona euro: che fare, altrimenti? Il problema europeo – quello che delinea il mese di settembre come un momento critico – è dunque questo: è per così dire impossibile sapere in quale momento preciso l’Europa sarà  ormai troppo avanti lungo la strada della “disgregazione” per fare dietrofront. O, in altri termini, quale sarà  l’evento che segnerà  il punto di svolta definitivo nella crisi europea. Un verdetto della Corte costituzionale tedesca, il 12 settembre prossimo, contrario al Meccanismo europeo per la stabilità  finanziaria? L’esito delle consultazioni elettorali dei Paesi Bassi di quello stesso giorno? Qualcosa di completamente diverso? Saperlo è impossibile. Questo è il rischio terribile che corre oggi l’Europa: è sufficiente sostituire la parola “nazionalismo” alla parola “pregiudizio”. Traduzione di Anna Bissanti


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