LE VOCI DELLA TERRA

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«Una delle cose più gravi della nostra cultura è che abbiamo svuotato il sapere della memoria relativa alla nostra origine, alle nostre vicissitudini e soprattutto alle lotte e alle tragedie che hanno dovuto sopportare i contadini per secoli». Così si ragionava di memoria, insieme a Dario Fo, circa un anno fa. La crisi economica c’era eccome ma non era manifesta come ora, che s’inizia a tremare sul serio. Mi viene in mente quel dialogo pubblico con Dario, in particolare proprio la sua parte sulla memoria, perché credo che siamo seduti sopra a una ricchezza incredibile, un possibile motivo di riscatto economico, ambientale e culturale, qualcosa di concreto e affascinante: le nostre campagne, con la loro bellezza e la possibilità  di creare cose buone e vite migliori. Chiariamo subito che non è nostalgia del passato, o il richiamo sterile a una tradizione vuota, con un approccio quasi museale: questa può davvero essere economia nuova, produzione, cultura; un nuovo modello/paradigma per affrontare il futuro. Con Dario si parlò tanto di ricordi, ma ci fu una sua storia che mi colpì più di tutte, legata ai suoi ricordi d’infanzia. Lamentavamo che i contadini nelle campagne non ci sono quasi più, un processo di spopolamento fisico e intellettuale che non potrà  continuare fino alla loro sparizione totale. E lui se ne uscì con la storia di suo nonno Bristin. «Ho sempre raccontato storie, fin da bambino. Ascoltavo quelle dei tanti immigrati che venivano a lavorare al mio paese, Porto Valtravaglia, nelle allora famose fabbriche di produzione del vetro. Parlavano ogni lingua, irlandese, croato, francese, ma da noi apprendevano il dialetto e poi cercavano di comunicare così. È da lì che nasce il gramelot, ascoltando le loro storie in lingue paradossali. Anche se il mio vero maestro nel raccontare fu mio nonno Bristin, il padre di mia madre». Allora Dario mi fa piombare nelle campagne della Lomellina di 80 fa. Un luogo di ottima produzione del riso, che ancora oggi conta su un’agricoltura di un certo livello, non del tutto intaccata da quel processo di spopolamento e impoverimento delle campagne ben raccontato, per quanto invece riguarda le mie zone del cuneese, da Nuto Revelli nel suo Mondo dei vinti. Negli anni ’60 e ’70 io e Dario vedevamo l’approdo in fabbrica dei contadini come un motivo di riscatto, la speranza di una presa di coscienza della lotta di classe. Altri tempi, altre idee, e non vedevamo lungo e in profondità  come Pier Paolo Pasolini, che sosteneva già : «Quando in Italia non ci saranno più contadini e artigiani, allora la nostra storia sarà  finita». Ma torniamo a Sartirana Lomellina, il paese di Bristin: «Andare da mio nonno era come andare in un paradiso terrestre. Aveva tantissimi figli e nipoti, ma io a 5 anni ero il suo cocco. Lui produceva riso, come tutti, ma anche frutta e ortaggi ed era un vero scienziato della campagna, sapeva tutto quello che c’era da sapere e tutti si rivolgevano a lui per dei consigli». Qui il mito si mescola con la scienza contadina, chiedo a Dario se lui oggi è più propenso per la scienza o per il mito, dribbla la domanda, a me per esempio la scienza piace, ma il mito mi diverte di più: «Mio nonno da piccolo era caduto da una scala e si era rotto tutte e due le gambe, allora dovette stare per molto tempo fermo. Per questo motivo imparò a leggere e a scrivere, tra i pochi del suo paese. Fu un prete a insegnargli, un prete che lo adottò un po’ quand’era bloccato, portandolo sempre in giro con la carriola. Questo suo saper leggere e scrivere lo portò a documentarsi. Era un contadino ma studiava l’agronomia, le tecniche di coltivazione, le diverse varietà  di piante. Era davvero uno scienziato: sapeva come usare l’acqua per irrigare e non sprecarla, le regole della semina e del raccolto, della meteorologia e del succedersi delle lune. Gli altri contadini andavano da lui e lui gli chiedeva che cosa avevano fatto nei campi, consigliava quali semi mettere a dimora, che lavori fare». Il nonno Bristin si muoveva a suo agio in contesto ricco di biodiversità , quando ancora era ritenuto un valore indispensabile nelle campagne, non sostituibile da varietà  monoculturali e più produttive, ma necessario invece ad allungare le stagioni o anticiparle: «Sapeva tutto dei semi, a volte diceva a chi gli chiedeva consiglio di tornare indietro da chi gli aveva dato quei semi e di farseli cambiare, perché l’avevano fregato. Ma era anche un genio negli innesti e nelle selezioni. Per me Sartirana Lomellina era un paradiso terrestre perché per esempio il nonno mi portava a vedere un suo albero di susine che ne produceva di tutti i colori. Da una parte erano gialle, dall’altra rosse, dall’altra ancora quasi nere. Era un albero a chiazze variopinte, uno spettacolo. Da paradiso terrestre appunto: pensate se Adamo ed Eva avessero avuto quell’albero di susine invece delle mele! Era sempre il primo a raccogliere la frutta e la verdura. La sua abilità  gli permetteva di anticipare gli altri anche di 10 o 15 giorni, e i suoi prodotti erano sempre il meglio su piazza. Io lo accompagnavo sul suo grande carro, trainato da un enorme cavallo belga, un gigante mansueto, a vendere i prodotti nelle altre cascine. Arrivava nelle aie, chiamava le donne e iniziava ad affabulare, a narrare, e alla fine vendeva tutto. Quando tornavamo mi lasciava condurre il carro. Si calava il cappello sugli occhi e si addormentava. Io, che avrò avuto non più di dieci anni, ero tutto orgoglioso di guidare, di dominare quel bellissimo cavallo gigante. In realtà  appresi solo dopo che non facevo nulla, perché il cavallo conosceva la strada del ritorno a memoria e faceva tutto da solo, lasciandomi soltanto l’illusione di essere più grande di quanto non fossi». Un nonno, Bristin, che sapeva vedere le connessioni nascoste nei sistemi naturali, un’abilità  che a volte lo scienziato tende a scartare nei suoi studi, perché ciò che non si può spiegare con delle regole certe non è scienza: «Mi faceva assaggiare un pezzetto di peperone e mi chiedeva che gusto aveva. Era dolce, e mi diceva che era così perché stava vicino ai pomodori. Le piante si parlano, s’influenzano a vicenda. Sapeva cosa succedeva un metro sottoterra, dove andava l’acqua, sosteneva che le piante lì sotto si amassero, si uccidessero, si toccassero e si evitassero. Queste cose mi sconvolgevano da bambino, mi sembravano di un mondo fantastico». Studiava, ma sapeva tante cose attraverso l’empiria, il ripetersi delle stagioni e degli eventi atmosferici. Non aveva paura della tecnologia, a dimostrazione che questi saperi non erano in contrasto con le migliorie possibili, se fatte con cognizione e senso del limite: «S’inventò le “serande” come le chiamava lui. Fu il primo a coprire con i vetri le coltivazioni, a usare delle serre che si aprivano e si chiudevano. E poi aveva escogitato un sistema di reti per proteggere le piante dalla tempesta, che sapeva sempre prevenire con puntualità . Dieci minuti prima chiamava tutti a raccolta e partiva questa macchina incredibile, con tutti gli altri contadini impegnati a muoverla come se fosse una nave. Mi fece stare sotto durante una grandinata violenta, una cosa incredibile, pezzi di ghiaccio da tutte le parti, un frastuono che mi impressionò. La nonna quando finì la grandinata lo sgridò moltissimo, dandogli dell’irresponsabile, ma lui era sicuro che saremmo stati protetti e ci rise su». La capacità  di essere un innovatore che però conosceva tutto del passato e del suo contesto lo portò ad essere scelto dalle facoltà  di agraria per fare lezioni agli studenti. Lezioni che non potevano prescindere dalla pratica: «Diceva che la terra se non la muovi non la capisci, allora portava gli studenti nei campi, parlava loro in dialetto, anche se conosceva benissimo l’italiano. Lo faceva per sfida, ma era convinto che i suoi saperi si potessero esprimere soltanto in quella lingua, che appartenessero a quella lingua. Poi gli faceva assaggiare la terra, ne prendeva un pezzetto, lo metteva in bocca e ne spiegava la composizione, sorprendendo sempre i professori dell’università . Agli studenti diceva una cosa che fa molto ridere: “Assaggia, lo senti il sale, e poi che cosa senti? L’hai sentito il gusto di merda di vacca? No? Certo, è perché è la prima volta che la mangi!” Tutto in dialetto naturalmente». L’oralità  era fondamentale, un mondo di comunicazione, relazione, la struttura della conoscenza. Il nonno di Dario era normale dunque che fosse anche un grande narratore: «Dopo che è morto sono andato a recitare a Mortara, a narrare proprio le storie che lui mi raccontava da bambino. I vecchi contadini, suoi amici che gli erano sopravvissuti, vennero a sentirmi e il loro commento fu “Sei bravo, ma Bristin era più bravo!” Il suo funerale fu una cosa incredibile, ancora stampata nella mia memoria. Vennero da tutte le campagne circostanti, perché tutti si fidavano di lui, non aveva mai dato consigli sbagliati. Lo rispettavano e gli volevano bene. Salvava i raccolti con i suoi consigli, decideva quando era l’ora di muoversi o di stare fermi. C’erano anche tanti preti, anche se lui era ateo convinto. La cosa che mi sconvolse è che vennero tutti in bicicletta. C’era questo feretro accompagnato al cimitero da uno stuolo di bici, il tutto in un silenzio quasi irreale. Un professore di agraria, il più importante di quelle zone, lo ricordò dicendo “Oggi non è morto un uomo, è morta la più grande collezione di testi scientifici sulla terra e sulla mia disciplina, un maestro della scienza della sopravvivenza e sarà  difficile trovarne un altro, perché i contadini stanno finendo”. C’è poco da aggiungere, mentre ci preoccupiamo per come andranno i mercati, per come usciremo da questa crisi, io penso ai contadini e voglio portare il ricordo del nonno di Dario attraverso le sue parole. Sperando che questi “scienziati” come Bristin un domani possano di nuovo proliferare. Non per tornare a quei tempi che erano anche duri, anche molto violenti (e Nuto Revelli ben ce l’ha raccontato), o per rinnegare i nostri progressi. Quei suoi saperi, calati nel mondo attuale, potrebbero essere la base per un nuovo modo di affrontare il futuro, con rispetto per la nostra terra e con la capacità  di farla fruttare come meglio può. Un nuovo rinascimento, fatto di bellezza, saggezza, relazioni umane diverse e civiltà : in fondo un modo per essere più felici, per non sentirsi sconfitti come a troppi accade. Cose che sarebbe bellissimo se Bristin oggi potesse insegnare a chi muove leve importanti per le nostre sorti.


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