Lo smemorato che ha perduto una generazione

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I trenta-quarantenni (e quindi ben più di una generazione, almeno due) sarebbero perduti forever. Più o meno una decina di milioni di persone, il cui essere «perdute» significa lavorare una vita senza garanzie, saltare da un contrattino all’altro, e raggiungere alla fine una pensione da fame che farà  sembrare l’attuale «minima» uno strabiliante privilegio. Perdutii! Qualche milioncino di italiani, forse gli stessi a cui si continua a ripetere che vivono «al di sopra delle loro possibilità », che è come curare il colera somministrando cozze avariate. Ma chi è stato così distratto? Chi si è lasciato alle spalle dieci milioni di senza speranza come nelle barzellette degli anni Sessanta si dimenticava la suocera all’Autogrill? Forse proprio i professori addetti alla formazione di quella generazione e che oggi così abilmente governano? Quelli che dicevano ci vuole la laurea, no, il master, no, lo stage, e che oggi dicono: ragazzo mio, era meglio se facevi il fabbro? Quelli che da vent’anni in qua pontificano che bisogna essere più flessibili, partendo dal signor Treu e arrivando a madama Fornero? Ecco, il succo è questo. Però non sfugga il paradosso: a dire a una generazione intera «siete perduti» non è qualche focoso arruffapopolo, qualche rivoluzionario, qualche vivace movimento, ma uno degli smemorati che ha contribuito a perderla, forse in questo momento il più autorevole. Un po’ come se lo zar si affacciasse al balcone e dicesse: «Ehi gente, che aspettate a prendere ‘sto palazzo?». E magari arrivasse persino a citare il caro vecchio «modello tedesco»: «Avete da perdere soltanto le vostre catene». Può farlo? Si può farlo senza rischi, con la consapevolezza che un’intera generazione perduta, spaventata e opportunamente deideologizzata risponda cordiale: «Beh, abbiamo delle catene… meglio che niente, no?».


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