Nei quartieri cristiani di Damasco “Ore d’inferno sotto il fuoco incrociato”

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 DAMASCO — L’assalto alle porte dei quartieri cristiani, a Bab Sharqi e Bab Touma nella Città  vecchia di Damasco, è iniziato col canto rituale dei muezzin che precede l’alba. «Al primo “Allahu Akbar” intonato dai minareti s’è scatenata una sarabanda di fuoco »: Samir, patriarca di un’antica famiglia di commercianti, ha il palazzetto proprio di fianco a Bab Sharqi, la Porta d’Oriente dalla
quale si accede all’area dei Masihiyya, i “seguaci del Messia”. «Era notte fonda, le scintille dei proiettili esplosi schizzavano in ogni direzione fuori delle finestre», Samir è ancora pallido e scosso. «La gente, giù per i vicoli, gridava “Eccoli, sono arrivati!”, e intendevano i gruppi armati. Lo aspettavamo come il peggiore degli incubi: l’invasione dei quartieri cristiani. Dopo quelli di Homs e Aleppo, sarebbe toccato anche a noi».
I primi scontri sono iniziati verso l’una a Bab Touma, poco distante da Bab Sharqi. Un commando di insorti si è appostato in un edificio ai margini di un gruppo di misere casette, vicino al corso d’acqua che scorre all’esterno della porta. Presa la stazione della polizia, è intervenuto l’esercito. Una ventina di uomini è riuscita a sgusciare verso Bab Sharqi. «Erano mercenari», sostengono gli abitanti, «parlavano con accenti stranieri». “Libici” dicono e intendono genericamente afgani, pakistani, ceceni, che popolano i loro timori dopo le notizie dei jihadisti entrati dall’estero. Sul cellulare mostrano le fotografie dei quattro uccisi nelle sparatorie, le barbe fino al petto.
«Tre quarti d’ora d’inferno», raccontano fra le case dove negli ultimi anni sono fioriti alberghi boutique, ristoranti citati anche all’estero, gallerie d’arte, piano bar, discoteche. Le loro parole suonano tanto più incongrue: «I nostri giovani sono scesi per strada, armati di kalashnikov. Sanno a malapena sparare». Da qualche giorno, infatti, da che è iniziata la battaglia di Aleppo, una parte della comunità  cristiana si è dotata di armi e di una guardia. «Assieme ai soldati, hanno fermato l’attacco sulla porta. Se fossero entrati, Damasco sarebbe crollata». Il pomeriggio s’era annunciato coi combattimenti alle spalle di Jaramane, a breve distanza da Bab Sharqi, nei frutteti colpiti dall’artiglieria, un elicottero a individuare dal cielo le posizioni dei ribelli.
A casa del mercante Samir, è una processione di gente. «Mi chiedono cosa fare», dice. «La sensazione è che questo sia soltanto l’inizio: una prova per saggiare la nostra reazione, capire quanto e come siamo armati. Vedrà , stanotte ritenteranno con armi più pesanti. Questo è un luogo strategico: chi prende il nostro quartiere, ha in pugno il cuore di Damasco».
Il boss cristiano non ha torto: la Città  vecchia, il centro della più antica capitale al mondo, cresce su se stessa da cinque millenni. La via Recta dei tempi romani riordina attorno a sé il groviglio dei suq.
Le case addossate l’una all’altra, chiuse da muri ciechi all’esterno, offrono un appostamento ideale. Una rete di cunicoli sotterranei permette di muoversi, non visti, attraverso l’intero quartiere; i tetti, contigui, sono una rete di passaggio ininterrotta, dominante dall’alto. Né carri armati, né artiglieria hanno spazio di manovra.
Stanare chi si annidasse qui, sarebbe un’impresa proibitiva. Perciò i ribelli armati resistono da mesi nel centro di Homs, e ora in parte di Aleppo. Agli occhi dei cristiani, però, la posta è «immensamente più alta: sta prendendo corpo il più cupo dei nostri presagi» dice Tony, un avvocato, e per spiegarsi ripete a bassa voce lo slogan ascoltato in certe piazze siriane dall’inizio della rivolta: «“Alawiyya ’a tabut, Masihiyya ’a Beirut. Sta per “gli Alawiti alla tomba, i Cristiani a Beirut”. Homs si è svuotata dei Masihiyya
come in Iraq, e da Aleppo fuggono in decine di migliaia ». Il siriano s’inasprisce: «Già  una parte dei ribelli fondamentalisti ci vuole fuori di qui. In più, Francia e America per assurdo ci spingono a emigrare. Questo vorrebbe dire lasciar tutto: le antiche case, i nostri averi, quel che abbiamo costruito nella storia. Equivarrebbe a rinunciare alle nostre radici».
George, un antiquario, interviene: «Ascolti, noi eravamo qui ancor prima di San Paolo», s’inorgoglisce:
«Quando Saul arrivò, già  l’aspettava un vescovo». Ricorda un convegno in America, lui cristiano arabo invitato a parlare a una platea di protestanti. «Un americano m’ha chiesto: “Com’è cambiata la sua vita dopo la conversione alla Chiesa di Gesù?”. Gli ho risposto: “Caro signore, spetterebbe a me rivolgere questa domanda a lei, dal momento che i miei avi erano cristiani molti secoli prima dei vostri?”». S’è fatta l’ora dei vespri; lo scampanellio delle chiese torna a riempire il cielo, vivace e impertinente. Il Patriarcato riapre, i fedeli si avviano ai santuari ortodossi, cattolici e delle tante denominazioni cristiane. Il ristorante Narenj, a 100 metri dall’arco di Bab Sharqi, imbandisce i celebri tavoli di fronte a una chiesa e a una moschea, come se nulla fosse stato. Munir, il maà®tre, sfoglia il libro delle prenotazioni: «Stasera tutto pieno», dice. E sembra crederlo. Più in là , a Bab Touma, i segni della sparatoria sono scomparsi. Tutto ripulito, anche i bossoli da terra. Non c’è traccia di soldati, né carri armati. Una quinta di normalità  avvolge la lotta mortale per il futuro di questa terra.


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