Se il granaio del mondo resta a secco

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NEW YORK – Capisci che c’è da preoccuparsi davvero quando il ministro dell’Agricoltura degli Stati Uniti, Tom Vilsack, dichiara: «Ogni giorno mi metto in ginocchio e prego perché piova. Sesapessifareladanzadellapioggia,giurochelafarei».L’allarme- siccità  è ai massimi livelli, dagli Stati Uniti “granaio del pianeta” le conseguenze si trasmettono nel mondo intero. La caduta della produzione agricola fa temere un bis del 2008, quando tra le concause della grande crisi che tuttora attraversiamo vi fu anche un’iperinflazione globale delle derrate alimentari. Quattro anni fa, violente proteste dilagarono in molti paesi emergenti: dall’Indonesia all’Egitto ad Haiti. Quei “tumulti del pane e del riso” furono l’antefatto e un fattore scatenante della stessa primavera araba a cominciare dalla Tunisia.
Tutto ha origine qui in America: la superpotenza economica e militare ha anche l’agricoltura più produttiva, una poderosa macchina da esportazioni che rifornisce il resto del mondo dalla Cina all’Africa. La siccità  estrema di questa estate 2012 mette in ginocchio questa formidabile potenza alimentare. I meteorologi parlano di “disastro strisciante”, solo perché i danni della siccità  hanno una dinamica da escalation graduale, a differenza dall’impatto istantaneo. Il crescendo graduale può renderci meno attenti, e tuttavia alla fine il bilancio diventa tremendo. Secondo le rilevazioni termiche della National Oceanic and Athmospheric Administration, il 2012 passerà  alla storia come l’annata più calda da sempre: o per la precisione dal 1895, cioè il primo anno in cui si cominciarono a misurare le temperature con metodi moderni e comparabili. In termini di precipitazioni, è dal 1956 che l’America non conosce un’estate così secca. La mancanza di pioggia affligge 29 Stati Usa. Ha trasformato le immense distese del Midwest, dall’Illinois all’Indiana, in paesaggi aridi e desolati, con terreni arsi dal calore, come croste dure spaccate e attraversate da crepe profonde. Certi campi un tempo floridi oggi appaiono quasi sterilizzati dall’onda d’urto dell’anomalìa termica. Più di metà  di tutta la superficie degli Stati Uniti è ufficialmente definita come “terra bruciata” dai servizi geologici, perché resa quasi inservibile ai fini agricoli finché le precipitazioni naturali non ritornano ad irrigarla. L’88% dei raccolti di mais saranno colpiti da questa calamità . Le scorte di soya e grano sono ai minimi. Anche quella parte dei raccolti che non sono completamente rovinati, sono fatti comunque di cereali macilenti, sotto- peso, smagriti dalla mancanza di acqua. Il 45% del mais viene
bollato dal Department of Agriculture come «scadente o molto scadente». Tv e giornali evocano ormai analogie con la storica siccità  degli anni Trenta, anche per l’inquietante parallelismo tra la Grande Depressione e la recessione iniziata nel 2008. Si rispolverano le immagini del Midwest di allora, trasformato nel Dust Bowl, un deserto polveroso da cui i contadini fuggivano disperati, cercando scampo in California: fu la tragedia di massa immortalata nel capolavoro di John Steinbeck, il romanzo Furore.
Oggi di certo questa siccità  è foriera di rincari nei prezzi alimentari: l’Amministrazione Obama già  prevede aumenti del 5% nei prezzi di carne, latte, cereali e pasta. «È come un pugno nello stomaco per le famiglie a basso reddito », è l’immagine usata dall’economista Chris Christopher, che focalizza l’attenzione sui 16 milioni di senza lavoro, i più vulnerabili. Ma l’impatto più drammatico non sarà  quello subìto dagli americani. Tanto meno dai diretti produttori. A differenza dagli anni Trenta, gli agricoltori Usa oggi sono una categoria ben protetta, che ha imparato a farsi scudo contro le incognite atmosferiche. Ci sono solo 1,2 milioni di coltivatori (contro i 7 milioni del 1935) e l’85% dei loro terreni sono coperti da polizze assicurative che li risarciscono dai cattivi raccolti. Anche il consumatore americano, nonostante l’impoverimento subito in questa crisi, resta pur sempre uno dei più ricchi del mondo: tant’è che spende solo il 13% del suo reddito per l’alimentazione. Paradossalmente il collasso dell’agricoltura americana sarà  sofferto ben di più in tutto il resto del mondo. L’allarme viene lanciato da un coro di organizzazioni: la Fao che è l’agenzia agroalimentare delle Nazioni Unite, la Banca Mondiale, ong umanitarie come Save the Children. Secondo l’esperto di materie prime David Nelson, «il disastro di quest’anno è peggiore di quello del 2007-2008 perché allora prevalse una componente di speculazione finanziaria », mentre ora siamo di fronte a uno shock climatico e a una caduta reale dei raccolti. I prezzi all’ingrosso della soya e del mais sui mercati mondiali hanno raggiunto il record di tutti i tempi; quelli del grano sono saliti del 50% in cinque settimane. L’Onu ammonisce sulle «conseguenze per i più poveri, quella vasta parte dell’umanità  che spende il 75% del suo reddito per acquistare il cibo». Il problema non si pone in modo così acuto per colossi come la Cina, le cui risorse finanziarie le consentono di acquistare derrate agricole sui mercati mondiali anche a prezzi più alti: e tuttavia gli stessi leader del partito comunista cinese non scordano mai la lezione del 1989, quando la rivolta studentesca di Piazza Tienanmen trovò consensi anche tra le classi lavoratrici perché coincise con un’ondata di rincari alimentari. L’impatto è più drammatico nel Terzo mondo vero e proprio, quelle nazioni dell’emisfero Sud che non hanno avuto “miracoli” economici in stile cinese. Se si guarda a paesi come il Bangladesh e l’Egitto, ad un intero subcontinente come l’Africa subsahariana, si trovano vaste fasce della popolazione che di fronte a un improvviso rincaro dei prezzi sono esposte alla denutrizione o alla sotto-alimentazione. Di qui il rischio concreto che preoccupa l’Amministrazione Obama: che si aprano anche nuovi fronti di instabilità , rivolte, guerre civili.
Questo non significa che l’Occidente sia al riparo dalle conseguenze della siccità . Per quanto il consumatore americano sia meno debole di quello egiziano, per quanto gli agricoltori di oggi siano tutelati rispetto agli anni Trenta, altre vulnerabilità  si scoprono dove non erano state previste. Un anello debole sono le infrastrutture: autostrade e ponti, ferrovie e reti di metrò, dal Texas all’Illinois si moltiplicano i danni provocati dall’ondata di caldo estremo, che mette a dura prova perfino il cemento e l’acciaio. Ancora più preoccupante, in prospettiva, è la crisi energetica che può nascere dalla siccità . La produzione di energia elettrica consuma ancora più acqua dell’agricoltura. Non si tratta solo delle centrali idroelettriche, danneggiate nella loro potenza quando i corsi dei fiumi e dei bacini artificiali si abbassano sotto una soglia di guardia: di questo impatto diretto si è avuta una dimostrazione drammatica e spettacolare anche dall’altra parte del mondo, con il maxiblackout elettrico che ha colpito 600 milioni di indiani, causato dal ritardo dei monsoni. Ma di acqua c’è bisogno anche per il raffreddamento delle centrali termoelettriche o nucleari. L’acqua viene usata quotidianamente per l’estrazione di petrolio e gas naturale, attraverso il tradizionale pompaggio dei giacimenti o con le più moderne tecniche di “fracking”. Ben oltre la metà  dei consumi quotidiani di acqua negli Stati Uniti sono legati alla produzione energetica. Con il consenso sempre più unanime tra gli scienziati del clima, che prevedono un intensificarsi di queste estati “estreme”, è l’intera economia dei paesi avanzati a scoprirsi esposta.


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