Vince il diritto alla liberazione dalle sofferenze

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La sentenza della Corte deriva da un ricorso presentato da una coppia portatrice sana di fibrosi cistica che, per evitare la trasmissione al feto di questa malattia, avrebbe potuto soltanto procedere alla procreazione medicalmente assistita. La legge italiana (la numero 40 del 2004, o meglio: quello che di essa resta a seguito delle sentenze di illegittimità  costituzionale) tuttavia non glielo consente. Essa infatti vieta l’accesso alla procreazione assistita a coppie fertili portatrici di malattie che, pur essendo trasmissibili al feto, non siano ricomprese – come appunto non lo è la fibrosi cistica – nella categoria delineata dalle linee-guida ministeriali. Nel motivare la sentenza, la Corte europea ha rilevato l’incoerenza di un ordinamento, quale quello italiano, che pur vietando l’accesso alla procreazione assistita e alla diagnosi pre-impianto dell’embrione in casi quali quello dei ricorrenti, consente tuttavia, in quegli stessi casi, l’aborto (cui pure la coppia stessa aveva dovuto fare ricorso in precedenza). Con il risultato, quindi, di legittimare un intervento profondamente lesivo e doloroso per la donna, vietando invece una procedura medica che quel dolore e quella sofferenza potrebbe evitare. I divieti della legge italiana contrastano quindi, ad avviso della Corte, con quel diritto al rispetto delle scelte di vita personale e familiare sancito dall’articolo 8 della Convenzione europea sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo. Si tratta di una sentenza suscettibile di divenire definitiva soltanto se contrariamente a quanto ha subito annunciato il ministro Balduzzi il governo italiano rinunciasse al ricorso, entro tre mesi, alla Grande Chambre. Oppure in caso di rigetto del ricorso. Qualora così fosse, ovviamente, la disciplina italiana – incostituzionale per violazione della Convenzione europea – andrebbe riscritta dalle fondamenta. In ogni caso, comunque, la sentenza di ieri non può non suscitare una riflessione profonda sull’irragionevolezza di una disciplina, quale quella dettata dalla legge 40, che per mera, cieca ideologia, priva le persone di quel diritto a godere dei benefici del progresso scientifico e delle sue applicazioni sancito – come ricorda Vladimiro Zagrebelsky – dall’articolo 15 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali delle Nazioni Unite. Di quel diritto, insomma, alla felicità  o, quantomeno, alla liberazione da sofferenze inutili, che dovrebbe rappresentare uno dei fondamenti essenziali di una democrazia laica e liberale. È questo un tema su cui ha insistito molto anche la nostra Corte costituzionale, nella sentenza 151/2009 che ha dichiarato illegittima la legge 40 limitatamente al divieto di produzione di massimo tre embrioni e all’obbligo di contemporaneo impianto degli stessi, in quanto lesivi, tra l’altro, della salute della donna. Nel censurare la ragionevolezza di queste norme – che imponevano alle donne continue stimolazioni ovariche lesive della loro salute – la Corte ha infatti ribadito come il progresso scientifico limiti la discrezionalità  legislativa, imponendole un «passo indietro» in materie che soltanto l’ «autonomia e la responsabilità  del medico», con il consenso (ovviamente) del paziente, può regolare. L’albero della scienza non sarà  mai l’albero della felicità , scriveva Byron. Ed è certamente vero. Ma è altrettanto vero che è obbligo del diritto consentire a ciascuno di cercare quella felicità , anche, se possibile, attraverso la scienza.


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