A proposito di Ingroia e dintorni
I giudici, comunque, come tecnica giuridica, mantengono una propensione per le regole e per le fattispecie, al fine di poter giudicare con serenità solo un fatto o una omissione ben specificati in una norma, seppure odiosa e vessatoria. Tant’è che il Duce, pur avendoli tutti iscritti al fascio, quando ha voluto perseguitare i nemici sulla base di vaghe idee «disfattiste», si è dovuto dotare di un tribunale speciale per la difesa dello stato, tutto politico e per niente tecnico, teso più alla ricerca della colpa d’autore (il comunista, il socialista, il disfattista) che dei fatti reato.
Con l’avvento della democrazia, dovendo scrivere una nuova costituzione, la sinistra non aveva modelli a cui rifarsi, essendo l’unico modello conosciuto quello del socialismo reale con i suoi corollari della «legalità socialista» e della «giustizia proletaria» che, ovviamente, nulla aveva né di socialismo, né di legalità , né di giustizia. Era un modello basato anch’esso sulla colpa d’autore, su teoremi accusatori che i vari Ezov preparavano a tavolino con acclusi dispositivi di condanna, per poi passarli a Stalin per l’approvazione finale e, quindi, recapitare al presidente del tribunale che li leggeva in aula dopo che il procuratore Vysinskij, alla fine di una superflua requisitoria, aveva gridato: «chiedo che questi cani impazziti siano fucilati, tutti!». (processo Zinov’ev e Kamenev, Mosca agosto 1936) Era il rozzo sostanzialismo dei mezzi che giustificano il fine e che poteva essere superato solo inserendo in Costituzione regole tipiche di uno Stato di diritto, funzionali sia all’eguaglianza formale che a quella sostanziale, inscindibile disegno dell’art. 3 Cost. nella cui realizzazione complessiva vanno ricercate le radici della teoria e della prassi di Magistratura democratica, con annesso culto delle regole e abominio delle manette.
Non tutti i giudici la pensavano così e ce n’è voluto di tempo per iniziare a sgretolare il muro del sostanzialismo, per cercare di staccarli dagli interessi concreti delle classi dominanti (ben ricordiamo gli uffici giudiziari di Roma come «porto delle nebbie»), con una battaglia sia per l’indipendenza esterna – dalla politica, appunto – che per quella interna, intendendo la giurisdizione come servizio e non come potere di una corporazione in concorrenza impropria con gli altri poteri dello Stato.
In alcuni paesi la legittimazione reciproca tra magistratura e politica è una prassi abbastanza costante e si basa sul rispetto delle regole di funzionamento di questi due «mondi» non facilmente separabili. In Francia Jospin, appena eletto, pur avendo il controllo della pubblica accusa, emanò un editto per imporre il rispetto immediato dei provvedimenti dei giudici, a prescindere dall’esito finale delle inchieste: pochi giorni dopo l’insediamento del suo governo, a farne le spese fu proprio il potente neo ministro delle finanze Dominique Strauss Kahn che, raggiunto da un avviso di garanzia per illecita raccolta di fondi elettorali, dovette dimettersi. Quello stesso, però, colto in fallo dalla giustizia americana, se la cavò per via di una teste d’accusa ritenuta inattendibile non tanto sul fatto denunciato, quanto sulla sua oscura vita privata. Per il district attorney Vance la donna, inattendibile su se stessa, era inattendibile su tutto il resto. Lì uno come Ciancimino jr. non lo avrebbero preso nemmeno come testimone di nozze, qui nonostante i riciclaggi e la dinamite al seguito, impazza in ogni processo in un cocktail assortito di attendibilità e inattendibilità , ed è trattato addirittura come una delle tante icone antimafia: il sostanzialismo è duro a morire!
La politica, dal suo canto, si è sempre difesa con l’arroccamento e, incapace di riformarsi in autotutela, ha cercato nella delegittimazione della magistratura una via d’uscita per giustificare le proprie magagne: Berlusconi in primis (ma anche tanti altri) si è sistematicamente difeso sul presupposto di una persecuzione da parte di giudici politicizzati e, ovviamente, comunisti, estendendo le propaggini di questo delirio fino a lambire la Corte Costituzionale, tacciata di «corte amica» (ovviamente della sinistra) ogni volta che cadevano per incostituzionalità i suoi scudi protettivi. Chi l’avrebbe mai detto che, in occasione del conflitto di attribuzione sollevato dal Capo dello Stato, il teorema della «corte amica» sarebbe stato riproposto dalla tifoseria dei «duri e puri» di una sedicente sinistra?
Vige, dunque, un sistema di delegittimazione reciproca che avvelena lo stato di diritto e non porta da nessuna parte. Un magistrato, che sia Ingroia o qualunque altro, come qualsiasi cittadino, ha il diritto di esprimersi su qualsiasi tema, di criticare il ceto politico, di auspicarne il ricambio, ma non può gridare alla delegittimazione, all’accerchiamento, se poi viene criticato: una par condicio alla quale troppi magistrati non sembrano voler sottostare. Un magistrato non può, a tutela del Capo dello Stato, respingere sdegnato l’uso strumentale delle sue parole e poi andarsi ad infilare volontariamente in un dibattito nel corso del quale (ed era prevedibilissimo) il grido più tenero verso Napolitano è stato, secondo le concordi cronache, «vergogna» e, per giunta, rimanere silente. Md, tra le tante parole, dibattiti e comportamenti, avrebbe dovuto fare una distinzione: ribadire il diritto di parola per il quale si è sempre battuta, contestando però quel silenzio inammissibile sugli attacchi al Presidente e quella pretesa di giudizio liquidatorio, di infallibilità moralistica sul «ceto politico», segnato così da una specie di indegnità collettiva, per «colpa d’autore», appunto.
L’indagine sulla trattativa tra Stato e mafia si sta rivelando il punto più alto di questa delegittimazione reciproca. Il vaglio di un giudice terzo in dibattimento porterà , si spera, ad un chiarimento ma non chiuderà lo scontro che si riaccenderà ad ogni futura occasione. Ci vorrebbe un «metodo Jospin» accettato da tutti: ci sarebbero errori e contrasti ma, a lungo andare, il rispetto delle regole e dei propri ruoli porterebbe ad una stabilizzazione del sistema e la legittimazione reciproca ci riporterebbe nell’alveo della correttezza istituzionale e costituzionale, senza giudici protesi verso il sogno di uno Stato etico e politici con pretese di impunità .
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