Dalla mala ai nuovi boss trent’anni di sangue e movida

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Milano bianca di polvere e Milano nera di morte. Droga & assassini, questo il nome della ditta. Una società  per azioni malvagie. Longeva, ramificata, più forte di tantissime Spa quotate in Borsa. Con una clientela vasta, affezionata e, sempre più spesso, rovinata. Ormai bastano cinque euro, «uno scudo», e gli spacciatori fanno sniffare, dentro le discoteche e nei parchi, i ragazzini, i futuri buoni clienti. Intorno alla “ditta” è cresciuta una Milano che sino a dieci anni fa sapeva trasformarsi, e che adesso, oggi, appare come una di quelle famiglie decadute, con gli eredi degli allori passati che svendono il patrimonio pezzo dopo pezzo e si comprano svaghi, sesso, stordimento, almeno per andarsene ridendo.
Chi fa paragoni con Scampia è patetico. Milano è una capitale internazionale. Una città  che gli americani, i russi, i cinesi vogliono ancora venire a vedere, specie se sono appassionati di glamour e ristoranti.
Eppure anche qui siamo arrivati a vedere una donna di 21 anni centrata alla nuca mentre cammina in una strada affollata, e tiene in braccio la figlia. Eppure, Max, marito e padre, scappava e provava a filarsela, abbandonando la famiglia, e abbiamo visto il killer in calzoni corti, che stava seduto sulla moto, ed è sceso. Come se fosse invisibile. Come se fosse in un film. E lo rincorre e lo finisce, quel Max che se la tirava da ganzo, in una strada piena di bar e ristoranti, e di testimoni. Un’esibizione. Una sorta di «Hai incontrato l’uomo sbagliato».
Il bianco della polvere. Il nero della morte. Anche il bianco e nero delle vecchie fotografie degli anni Settanta può servire a stabilire il «punto nave» di questa rotta balorda. Qualcuno ricorderà  una panchina nella nebbia, un giovane capellone morto, rigido, e un prete sovrappeso che alza la mano, a benedirlo. Quella foto diceva «Milano» ai non milanesi. E ai milanesi diceva «Giambellino», il quartiere cantato da Giorgio Gaber, dove viveva Mina, ma dove arrivò l’eroina a fiumi. Dove Cosa Nostra organizzò il primo spaccio a cielo aperto, per migliaia di persone. Dove la squadra Narcotici, quando non esisteva nemmeno la legge sui pentiti, si portò dietro il fratello di uno morto ammazzato e imparò a conoscere così le facce e i suoni: il «cavallo», che portava droga, e il «vincenzo», che veniva fregato.
I turchi allora venivano a Milano con i tir di brown sugar e siciliani e calabresi, quelli della “ditta”, a un certo punto, uccidevano gli autisti e si tenevano il carico, tonnellate di polvere bianca e marrone. Tanto di roba ce n’era sempre, e quei morti ammazzati a volte riemergono dalle rogge dov’erano finiti. Nel giorno dei defunti del ’79 nel ristorante “Le streghe” vennero trovati otto uccisi, record assoluto delle stragi malavitose in Italia: anche allora il nero della morte era stato causato dal bianco di una partita di droga. E bianco era anche l’abito da sposa con cui venne sepolta una ragazza di diciannove anni, che in quel ristorante si trovava per caso, fidanzata di un gangster, e anche lei venne centrata alla nuca, come successo lunedì sera a Carolina Payano Ortiz in via Muratori.
Il nero dei killer e il bianco della roba a Milano crearono allora – e regge oggi – un’ampia zona grigia, un “non-luogo” dove imprenditori e mafiosi, squillo e modelle, biscazzieri e strozzini si trovavano gomito a gomito. Negli hotel e nelle bische clandestine dei Turatello, Epaminonda, Franchino Restelli. I politici? Come no: molti hanno dato soldi ai politici, e i politici hanno offerto favori ai gangster sino agli anni Novanta, quando Tangentopoli s’è disintegrata per rispuntare sotto altre forme.
Oggi nessun imprenditore, specie se fa affari con le discoteche e la movida, denuncia di pagare il pizzo. E forse è vero (quasi vero) che nessuno gli sfila le banconote di tasca. Bisogna solo stare attenti e tacere. Fingere di ignorare che sono i boss calabresi a organizzare i buttafuori e lo spaccio nei bagni, e che alcuni tavoli sono sempre riservati a ragazze come Ruby Rubacuori e altre centinaia, che dal Marocco e dall’Est arrivano senza un euro in posti dove una bottiglia di bollicine ne costa 150. E non tutte arrivano da sole.
Oggi, in giro, Milano sembra a occhi estranei spesso in festa. Ovunque persone che bevono, tavolini a perdita d’occhio sui Navigli, gioielli, eleganza, auto da 80mila euro in doppia fila. Max, nato a Quistello, e Carolina, nata a Santo Domingo, erano intonati a queste folle ridenti. Ma in armadio avevano il bianco della «bamba», la coca, che circola così copiosa da aver reso da anni Milano (altro macabro record) la città  europea con il più alto consumo pro-capite. E così Max e Carolina, mentre giravano nei bar e nelle discoteche, avevano un nemico. Uno che nascondeva sotto la maglietta alla moda il nero del revolver carico.
Non pochi come Max e Carolina sanno bene che a Milano è molto facile essere sfiorati dalla morte, ma qui non si sta in casa finché girano soldi, finché la “ditta” della notte fornisce tutto ciò che serve per fingere di avere una vita vincente e felice. O, forse, solo una vita che non sembri com’è: in un bianco e nero che sa già  di cenere.


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