Giappone: l’opzione zero nucleare entro il 2030

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Un brutto colpo per le compagnie elettriche, sostenute dalla lobby politica nuclearista, che chiedevano di ripartire con il nucleare per motivi “economici”, evitando che il Giappone diventasse troppo dipendente dalle importazioni di combustibili fossili esteri. L’abbandono del nucleare potrebbe costare al Giappone almeno 50 mila miliardi di yen, che convertiti in euro sarebbero circa 500 miliardi. Cifra da spalmare entro il 2030 e che vedrebbe le bollette delle famiglie nipponiche passare nel 2030 da 16.900 yen a 32.243 yen (340 euro) al mese. Proprio per questi potenziali aumenti in questi ultimi mesi la scelta anti-nuclearista era apparsa tutt’altro che scontata, nonostante avesse portato quasi 200.000 giapponesia circondare la residenza del primo ministro Yoshihiko Noda per protestare, il 29 giugno scorso, contro le decisione di riavviare solo 2 delle 50 centrali nucleari dell’isola, ferme dal 5 maggio 2011.

Per Greenpeace International la scelta non è in ogni caso un azzardo. Secondo il rapporto Energy [R]evolution, il Giappone può sostenere la propria ripresa economica e rispettare i suoi impegni di riduzione di gas serra entro il 2020 senza far ripartire nessuna delle centrali atomiche chiuse dopo il disastro di Fukushima. “Gli incentivi alle rinnovabili adottati dal Governo – sempre secondo il rapporto di Greenpeace – stanno già  dando ottimi risultati. Il 1 luglio, dopo solo un mese dalla loro adozione, sono stati raggiunti 560 Mw di rinnovabili, ovvero il 20% dell’obiettivo del Governo previsto in 9 mesi”. Alla luce di questi dati Greenpeace plaude alla decisione, anche se ritiene che esporre la popolazione al rischio atomico per altri 18 anni sia troppo: “La strategia del Governo prevede un’uscita dal nucleare troppo lenta. Questo dev’essere il punto di partenza per una politica energetica orientata alle rinnovabili più ambiziosa, per una maggiore efficienza energetica e in generale per una sterzata più decisa verso la green-economy che assicurerà  il benessere del Giappone” ha precisato Kazue Suzuki di Greenpeace Giappone.

Intanto in Europa e più precisamente in Francia nella centrale nucleare di Fessenheim, ad una trentina di km da Basilea, lo scorso 5 settembre una fuoriuscita di vapore ha ferito due lavoratori. L’episodio è stato confermato da un portavoce di Edf, la multinazionale francese che gestisce l’impianto nucleare: “L’incidente è stato provocato da un errore durante un’operazione di manutenzione e ha a provocato una fuoriuscita di vapore e non un incendio [come presunto in un primo momento] e non è stato necessario l’arresto della produzione – ha dichiarato alle agenzie l’azienda francese -. Due operai della manutenzione hanno avuto ustioni alle mani, ma non c’è stata fuga radioattiva”.

La centrale di Fessenheim, la più vecchia in attività  in Francia, non è nuova ad incidenti, alcuni dei quali, minimizzati all’inizio, in passato si sono rivelati abbastanza gravi. Anche per questo Franà§ois Hollande ha promesso in campagna elettorale che la chiuderà  entro il 2017, ma agli ambientalisti la promessa non basta. L’incidente è avvenuto proprio mentre alcune associazioni antinucleari (tra le quali Stop Fessenheim) venivano ricevute al ministero dell’Ecologia e dello sviluppo sostenibile per chiedere garanzie sul calendario di chiusura della centrale, e la promessa di far parte della commissione che seguirà  i lavori di smantellamento e di verifica delle prescrizioni dell’Autorité de Sà»reté Nucléaire. “Non ci accontentiamo di una promessa, vogliamo garanzie che sia mantenuta. Quel che temiamo è che il futuro di Fessenheim sia nuovamente un soggetto di dibattito delle prossime elezioni residenziali del 2017”, hanno dichiarato gli ambientalisti.

Che si tratti di nucleare civile o militare la nuova sensibilità  “allergica” al nucleare sembra essere in linea con quanto osservato anche da Ban Ki-Moon nel suo appello del 29 agosto per la Giornata Internazionale contro i test nucleari. “I test nucleari continuano ad essere una minaccia per la salute dell’umanità  e la stabilità  mondiale – ha dichiarato Ki-Moon – In tutto il mondo, incontri, conferenze, esibizioni e competizioni si organizzano per aumentare la consapevolezza pubblica e spingere ad azioni utili a mettere fine ad ogni test nucleare. Per raggiungere questo obiettivo, gli Stati che non hanno ancora firmato e ratificato il Comprehensive Nuclear Test Ban Treaty (Ctbt) devono farlo senza indugio”

Chi manca all’appello? Cina, Repubblica Popolare Democratica di Corea, Egitto, India, Iran, Israele, Pakistan e Stati Uniti. Una ratifica potrebbe essere un’opportunità  importante per richiamare l’attenzione sugli effetti dannosi e a lungo termine dei test, così come sul continuo pericolo costituito dall’esistenza di centinaia di armi nucleari. Sempre che l’interesse economico non prevalga sul buon senso…


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