Gli operai Alcoa in piazza Scontri e feriti a Roma

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ROMA — I dischetti di alluminio sfrecciano ad altezza d’uomo su via Molise. Lame rotanti contro gli scudi dei poliziotti. Il marchio di fabbrica dell’Alcoa: li chiamano provini e servono per testare la purezza del metallo. Poi è la volta dei petardi, delle bombe carta nascoste nelle mele fatte rotolare sull’asfalto. «Sembrano innocue, invece fanno male», dice un agente schierato davanti al ministero dello Sviluppo economico. «Dimonios!», gridano i lavoratori dell’Alcoa assediati da ogni parte, chiusi dalla polizia su via Veneto, dai carabinieri su via di San Basilio e dalla Finanza su piazza Barberini.

Sui caschetti gli adesivi con la bandiera dei Quattro mori, sulle maglie la scritta «Disposti a tutto», a terra lamine di alluminio «che tireremo addosso a chi tenterà  di fermarci», urla un operaio. Poi tutti insieme intonano l’inno della Brigata Sassari: «Dimonios!». Anche loro «soldati», ma disperati e rabbiosi in attesa di notizie dall’incontro al ministero dello Sviluppo economico. Accettano di parlare con il leader della Cisl, Raffaele Bonanni. Non accade lo stesso per Stefano Fassina, responsabile economico del Pd: gli operai lo notano mentre rilascia un’intervista e lo aggrediscono, lo spintonano, lo costringono a ripararsi oltre il cordone di sicurezza. «Bastardi, ci avete deluso!», gli gridano i manifestanti, con le bottiglie di birra e Campari (hanno esaurito le scorte di un bar della zona) ai loro piedi.
Più volte cercano di forzare i blocchi, ma vengono sempre respinti. «Il governo doveva intervenire prima. Era necessario far passare un’altra giornata d’inferno a Roma?», attacca il sindaco Gianni Alemanno. Che ieri sarebbe stata difficile era noto fin dalla vigilia, con il rischio di infiltrati. Ma non che gli scontri davanti al ministero sarebbero stati così violenti: 20 feriti, quattordici poliziotti (compreso il dirigente di un commissariato) e sei manifestanti. Quasi 17 ore di schermaglie, cori, insulti, proteste, cominciate con l’arrivo a Civitavecchia del traghetto da Cagliari con 550 lavoratori di Portovesme pronti a difendere il posto di lavoro. Il corteo, da piazza della Repubblica a via Molise — con i sindaci del Sulcis in testa — è filato via liscio. Solo fumogeni e petardi. Lo scenario è radicalmente cambiato al ministero. Prima i lanci di bombe carta contro i blindati che impedivano agli operai di raggiungere piazza Barberini e di proseguire lungo via del Tritone, verso Palazzo Chigi. Poi il corpo a corpo con gli agenti, un mezzo della Finanza danneggiato, un manifestante ferito nel tentativo di evitare un ordigno. La tregua, accompagnata dal ritmo assordante scandito da tamburi, fischietti e dai caschi sbattuti sull’asfalto, è stata interrotta dai petardi lanciati anche contro il portone e le finestre del ministero: uno è finito oltre la cancellata, scoppiando in cortile senza provocare grossi danni. Un razzo da segnalazione ha invece incendiato un gazebo dell’Hotel Boscolo.
Negli uffici gli impiegati barricati, in strada i turisti preoccupati dal caos in via Veneto, a due passi dall’ambasciata Usa. Poi, dopo il tramonto, è stato il momento dei falò, delle proteste in mutande e degli spintoni fra operai e delegati sindacali al termine dell’incontro con i rappresentanti del governo: «Tornate dentro». Perché in 550 hanno fatto tremare Roma.


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