Gli uomini ombra che moriranno in carcere

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Non escono, nemmeno per un’ora, fino al certificato di decesso. Non sono ancora morti e non sono più vivi: per loro non vale la consolazione che finché c’è vita c’è speranza. E guardate che non si tratta di un pugno di casi estremi, ma di centinaia: «Talmente invisibili – ha scritto l’Avvenire– che neanche al ministero della Giustizia sanno dire con esattezza quanti siano davvero gli ‘ostativi’».
Ho scritto sopra «esclusa senza riserve»: non è del tutto esatto.
Perché giudicando dell’incostituzionalità  di una pena che esclude a priori la rieducazione e la risocializzazione – dettate da lettera e spirito della Carta – la Corte costituzionale ha convalidato l’unica ipotesi che prevede di romperne il rigore mortale. È il caso in cui il condannato “collabori” con la giustizia facendo i nomi di altri colpevoli. Questa eccezione ribadisce il rovesciamento di senso per cui in Italia si chiamarono “pentiti” i collaboratori di giustizia, tramutando una categoria pratica, spesso utile e altrettanto spesso detestabile, in una categoria morale. Non solo l’assimilazione è indebita, ma può avvenire l’opposto: che un vero intimo e non esteriore pentimento vada assieme al rifiuto o all’impossibilità  di denunciare altri. Altri che a loro volta possono aver cambiato vita per intero, sicché la denuncia varrebbe a mettere in galera al proprio posto qualcuno che non costituisce da anni e magari da decenni alcun pericolo per la società .
Ma lasciamo pure che questo resti un dilemma delle coscienze e del loro segreto; subordinare l’“indulgenza” (uso questo termine perché ricorda l’altro, della simonia) alla delazione espone il condannato a mettere oltre che se stesso la propria famiglia, a distanza di venti o trenta anni — figli, figli dei figli — nella catastrofe della “protezione”, del cambiamento di identità , di luogo, di vita, nella paura. E infine — ma non è l’ultimo degli argomenti, al contrario — chi può escludere che fra quegli ergastolani “ostativi”, quegli “uomini ombra” come loro stessi hanno deciso di chiamarsi, ce ne siano che non hanno niente da confessare,
nessuno da denunciare? Anche se si trattasse solo di una questione di principio, occorrerebbe tenerne gran conto, e del resto è uno degli argomenti (non il maggiore) invocato contro la pena di morte: il conto dei giustiziati e riabilitati negli Stati Uniti è lungo — altrove non c’è nemmeno il conto postumo. Ma bisogna piuttosto rassegnarsi a vederlo come una tragica questione di fatto. Siamo reduci, ancora reticenti, dalla scoperta che una montatura mostruosa aveva mandato in galera all’ergastolo, e ci sono rimaste diciott’anni, otto persone non colpevoli, che ci sarebbero restate con quella dicitura: “Fine pena 31-12-2999”. Ergastolani ostativi, per l’assassinio di Paolo Borsellino, salvo che non erano stati loro ad assassinare Borsellino.
In Italia c’è da sempre una discussione sull’ergastolo. Se ne è richiesta l’abolizione come una pena disumana, vendicativa, negatrice della possibilità  di riscatto e, per questo, negatrice della Costituzione. Quella discussione si è attutita, come tante altre, per il peso opprimente che la criminalità  organizzata ha esercitato sul paese, e non smette di esercitare. Nelle polemiche di questi giorni si può misurare l’ambiguità  spaventosa che avvelena ogni dubbio sul 41 bis, al di là  del proposito indubbio di impedire ai criminali di continuare a far male anche dalla cella. Ma le ambiguità  vanno sciolte nei loro elementi nitidi, per quanto è possibile. Don Luigi Ciotti, campione dell’impegno contro le mafie, scrive: «Giudicare insensato il carcere senza fine non è asserzione ideologica o radicalismo astratto, ma semplice constatazione». Valerio Onida, a sua volta ex presidente della Corte costituzionale e uomo arricchito da una frequentazione volontaria del carcere, ha scritto a Carmelo Musumeci, ergastolano ostativo e rianimatore degli uomini ombra: «Non mi sembra giustificato escludere in ogni caso che, anche in assenza di collaborazione, possa ritenersi in concreto il ravvedimento del condannato. Mi auguro che la questione possa essere riproposta all’esame della Corte, o altrimenti risolta dal legislatore». Segnalai qui in passato la lezione in cui il professor Aldo Moro diceva: «Un giudizio negativo, in linea di principio, deve essere dato non soltanto per la pena capitale…
ma anche nei confronti della pena perpetua: l’ergastolo, che, priva com’è di qualsiasi speranza, di qualsiasi sollecitazione al pentimento ed al ritrovamento del soggetto, appare crudele e disumana non meno di quanto lo sia la pena di morte ». «Non meno»: pensiero che contrasta radicalmente con tutte le forme di ripudio della pena di morte che vogliono compensarlo con l’inflessibilità  della reclusione a vita – argomento corrente soprattutto negli Stati Uniti. Continuava Moro: «Ed è, appunto, in corso nel nostro ordinamento una riforma che tende a sostituire a questo fatto agghiacciante della pena perpetua – (“non finirà  mai, finirà  con la tua vita questa pena!”) – una lunga detenzione, se volete, una lunghissima detenzione, ma che non abbia le caratteristiche veramente pesanti della pena perpetua che conduce ad identificare la vita del soggetto con la vita priva di libertà . Questo, capite, quanto sia psicologicamente crudele e disumano… Ci si può, anzi, domandare se non sia più crudele una pena che conserva in vita privando questa vita di tanta parte del suo contenuto, che non una pena che tronca, sia pure crudelmente, disumanamente, la vita del soggetto e lo libera, perlomeno, con il sacrificio della vita, di quella sofferenza quotidiana, di quella mancanza di rassegnazione o di quella rassegnazione che è uguale ad abbrutimento, che è la caratteristica della pena perpetua. Quando si dice pena perpetua si dice una cosa… umanamente non accettabile».
«Una lunga detenzione, lunghissima… ». Traggo dalla prefazione a una raccolta di scritti di ergastolani, Urla dal silenzio, questa informazione: «In Italia ci sono più di 100 ergastolani che hanno alle spalle più di 26 anni di detenzione, il limite previsto per accedere alla libertà  condizionale. La metà  di questi 100 ha addirittura superato i trent’anni di detenzione. Al 31 dicembre 2010 gli ergastolani in Italia erano 1.512: quadruplicati negli ultimi sedici anni, mentre la popolazione ‘comune’ detenuta è ‘solamente’ raddoppiata». (Su “Ergastolo e democrazia” si terrà  presso il Senato un importante convegno il prossimo 2 ottobre).
Vorrei concludere provvisoriamente evocando la sentenza del tribunale norvegese che ha condannato Anders Breivik al massimo della pena prevista dal codice di quel Paese, 21 anni. Anche quei bravi norvegesi hanno dovuto amaramente sperimentare la sproporzione fra le loro leggi e lo spirito che le informa, e l’irruzione di un’infamia smisurata: e tuttavia hanno scelto la fedeltà  a quello spirito. In Italia, molti hanno voluto commentare irridendolo. Hanno fatto il conto e intitolato il loro sdegno così: «Tre mesi per ognuno dei 77 ammazzati». Mettiamo che fosse stato condannato, quel mostro, a 63 anni: il titolo «Nove mesi per ognuno dei 77 ammazzati» sarebbe
stato meno sdegnato?


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