I dannati del pickup Vivere a Monterrey sui cassoni delle auto

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Sono scatti fotografici, ma sembrano intercettazioni visive, documenti di un’epoca. Corpi di uomini sui pianali di pickup, spesso immobili. Un segreto invisibile a chi sta al livello della strada, ma svelato dal cielo. Cosa sono? Alcuni potrebbero anche essere cadaveri freschi provvisoriamente ricoperti, portati via dopo una strage. Ma no, guarda bene: sono vivi! Qualcuno è seduto, uno legge addirittura il giornale. Forse allora quelli sdraiati, semplicemente dormono. Dove vanno? Da dove vengono? Perché viaggiano in quelle condizioni? Chi sono? Quanti sono? Dove siamo?
Difficile sottrarsi al fascino che esercitano queste immagini. Anche se non si sa nulla del loro contesto, danno l’impressione che potrebbero non finire mai, e costituire un flusso continuo; si avverte che in questo viaggio segreto c’è qualcosa di drammatico. Sveliamo allora le carte coperte. Siamo nel nord del Messico, alla periferia di Monterrey, la città  più ricca e forse la più violenta del paese. Gli uomini distesi sui pianali non sono immigrati clandestini che cercano di passare la frontiera, ma operai edili che vanno ai cantieri. L’occhio che li immortala di prima mattina è quello del fotografo dominicano Alejandro Cartagena,
trentacinquenne documentarista, messicano di adozione, che si è sistemato per mesi su un cavalcavia pedonale alla periferia della città , sulla carretera 85 che va verso il confine con il Texas. Il suo lavoro l’ha chiamato Car Poolers, come gli americani chiamano quei gruppi di persone che usano in tanti lo stesso veicolo per andare a scuola o in ufficio, dividere i costi e contribuire così alla diminuzione del traffico e delle emissioni nocive.
Ma questi messicani non sono car pooler per scelta, ma per necessità . Troppo poveri per potersi permettere una macchina o una moto, in assenza di mezzi pubblici che li portino al lavoro — se optassero per un trasporto collettivo su furgoni se ne andrebbe un quarto del salario — sono costretti a viaggiare al freddo sui pianali, che sono l’unico mezzo di trasporto che i loro padroni mettono graziosamente a disposizione. (Non ci dev’essere un gran potere sindacale, da quelle parti).
Quanti sono? Migliaia, probabilmente, perché la zona di Monterrey è al centro di un furioso sviluppo edilizio. La città  â€” è il tema del lavoro documentarista di Cartagena — sta espandendosi caoticamente formando una magmatica conurbazione di cemento, case popolari, ville di nuovi ricchi, centri commerciali, casinò, alberghi, piscine, sale da ballo, mega ristoranti per cerimonie nuziali, in assenza di qualsiasi piano urbanistico o controllo pubblico.
Ma c’è qualcos’altro, che le foto non dicono, ma in qualche maniera, nella innaturalità  delle posizioni degli uomini trasportati, lasciano intuire. C’è pericolo, su quell’autostrada 85. Anzi, c’è pericolo dappertutto, nella nuova megalopoli di Monterrey. Siamo infatti nell’epicentro del narcotraffico messicano, un cancro ormai diventato una forma di governo. I fatti sono noti a tutti. Da almeno cinque anni questa zona del Messico è sotto controllo di cartelli della droga che hanno sconvolto l’assetto sociale, politico e quotidiano della regione. Iniziarono con la produzione di marijuana, poi passarono alle anfetamine con cui conquistarono una larga fetta del mercato nordamericano, poi si introdussero nel mercato mondiale della cocaina, fino a diventarne i protagonisti. Con i colossali guadagni i cartelli (a Monterrey comanda quello denominato “Los Zetas”) hanno di fatto preso il potere sulla politica dello stato di Nuevo Leon, hanno messo sotto il controllo la stragrande maggioranza delle forze di polizia e sono i responsabili del boom edilizio della regione. Legge e ordine non esistono più da tempo, sostituiti da un’instabile lotta tra fazioni per il controllo del territorio che agisce con una ferocia che non si vedeva da tempo nel mondo moderno.
Intorno alla città , sono quotidiani i blocchi stradali dei narcos in pieno giorno, attuati con camion a rimorchio, che impongono pedaggi agli automobilisti o generano sequestri di persona; così come gli attentati ai concorrenti, l’intimidazione alla stampa, gli omicidi mirati e le carneficine. Le ultime due a Monterrey, nella primavera del 2011, sono state le più feroci della recente storia del Messico: 52 morti ammazzati con il mitra in un casinò dove un capobanda festeggiava con il suo clan, sono stati l’antecedente per i 49 morti decapitati (molti mancanti anche di gambe e braccia) fatti trovare ai bordi dell’autostrada 85, nel maggio scorso, periodo in cui Alejandro Cartagena, probabilmente poco lontano, piccolo uomo invisibile su un cavalcavia, scattava queste fotografie.
Fotografie che così ora siamo costretti a guardare con un altro spirito, immaginando per esempio quanto i nostri operai sul pianale siano coscienti del rischio che corrono, o quanto siano ammirevoli eroi che in cambio di un salario poverello, rischiano ogni giorno la vita. Non sappiamo neanche se vanno a costruire la villa di un riccone, una fortificazione militare, le gradinate di uno stadio di calcio, una chiesa o un monumento funebre a un narcotrafficante. Non li vediamo in volto, ma ci sembra di vederli. Gli eredi dei contadini dipinti nei murales di Diego Rivera, i figli di quelli che scioperarono in California guidati da Cesar Chavez, i fratelli di quelli che lavorano ancora da clandestini a raccogliere ortaggi e frutta della sconfinata Central Valley che dà  da mangiare a mezzo mondo.
Non vediamo il terribile contesto, vediamo solo una fettuccia di asfalto e l’onnipresente pickup, il mezzo di trasporto delle guerre moderne, degli insorti e dei malintenzionati di ogni latitudine. E, nel campo stretto, nella innaturale posizione dei soggetti colpiti dall’alto nel loro segreto, nella ripetitività  di una scena che capiamo non è destinata a finire, nella sua assurdità , sta tutto il dramma, e il lavoro del documentarista Alejandro Cartagena.


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