I sogni traditi dei giovani di Tunisi
Non riconosco più i ragazzi della rivoluzione, gli intrepidi di Sidi Bouzid, i compagni dei martiri che accesero le rivolte. Erano innocenti e cattivi allo stesso tempo. Sono stanchi, usati, sfatti; e li ricordavo pronti a sorgere e a risorgere, con quel tanto di indomito che entra nel sangue dei popoli abituati a strappare la vita alle pietre e ai deserti. Li ascolto, li guardo nella piazza dove quel fuoco bruciò e ho l’impressione che qualche cosa di nobile, non soltanto loro, sia avvilito. Sono, ora, semplicemente seri, di quella serietà che i poveri portano nel viso come una maschera immobile, che tradisce una vita piena di triboli e di pene. Davvero ci sono quelli che fanno le rivoluzioni e quelli che ne approfittano.
Sidi Bouzid era così anche un anno fa, campi spogli, niente altro che foglie e gli alberi leggeri e vuoti. Orribili cani con le orecchie da pipistrello continuano a scappare di traverso e spiano col muso appuntito e apprensivo. Rari autobus passano come vecchie diligenze in luoghi deserti. Una città che sembra un mondo in sfacelo, sconnesso sordido: i selciati i muri i legni le moschee gli interni. Nell’aria vaga un fetore acido. I ragazzi (alcuni sono «harraga», hanno viaggiato con me sul mare verso Lampedusa il marzo di un anno fa) distillano come sempre infiniti caffè attorno al governatorato; parlano fitto, eppure non pensi che a un alone di solitudine. Ecco: la vita qui è tornata a essere, dopo una breve fiammata di gioia e speranza, null’altro che un rasentarsi di solitudini. Li ricordavo glabri, ora molti esibiscono l’arruffato tosone della barba dei salafiti. Mi raccontano, quasi vergognandosi, a occhi bassi, che a fine luglio un gruppo di operai che invocavano il pagamento dei salari e una folla di abitanti furiosi contro i nuovi governanti sono sfilati invocando: «Ben Ali, Ben Ali…, il nome di «Zaba», il tiranno che hanno impiegato vent’anni a cacciare.
Una studentessa dell’università , con qualcosa di materno misto alla sua seduzione di donna, che un anno fa mi aveva incantato con i suoi sogni rivoluzionari, guarda sul giornale le foto dell’ambasciata americana a Tunisi in fiamme: «Abbiamo sprecato la nostra libertà …». La prende un rimpianto cocente di aver sciupato qualcosa, e un’ora segreta che non sarebbe più tornata.
La strada, che un anno fa sognava la libertà , oggi è in mano al partito di Dio, distrugge l’ambasciata Usa e vuole la sharia. E i ragazzi, affamati e senza lavoro, si rimettono in mare e fuggono. La nuova tragedia di Lampedusa ha bruscamente richiamato la questione sociale. «Se guardi il profilo dei martiri e la geografia della rivoluzione del 2011, il centro e il sud miserabile, capisci che è nata dalla povertà – mi dice Abderrahmane Hédhili, che guida il Forum per i diritti economici e sociali -. Poi apri la tv, assisti a un dibattito tra i politici di oggi… Che pena! Tutti ci hanno tradito! ». Attorno a lui le madri dei ragazzi spariti nel Mediterraneo nei barconi affondati, duemila in un anno, mi protendono le foto dei figli, mi guardano compassionevolmente come se mi conoscessero.
Non è la primavera araba a svelarsi, come sostiene qualcuno, sconfitta. La rivoluzione ha vinto, lo prova con i suoi martiri. È il dopo rivoluzione filisteo e rancido, qui e altrove, che è stato sconfitto. Bisogna ammetterlo. La mite Tunisia, con la crescita numerica dei salafiti per cui solo i primi 220 anni dell’Islam sono puri e il resto è «bid’a», eresia, si scopre violenta. Mi pare di udire qualcosa che si ridesta, l’intransigentismo, l’odio giubilante di questo jihad nomade, come un allarme che si propaga ai quattro punti cardinali. Puoi sorprenderti dell’assalto all’ambasciata Usa, dei randellamenti quotidiani che il governo finge di non vedere, quando il primo nel pantheon del partito al potere, l’islamico Rached Ghannouchi, a chi gli rammenta tutto questo, risponde affettuosamente: «Ma sono i nostri ragazzi…»?
La miseria all’origine di tutto, come un anno fa, sempre: la disoccupazione al 17%, al 50% per i giovani diplomati, l’inflazione al 7,5%, ci sono riserve per soli cento giorni di importazioni, i prezzi di pomodori e peperoni sono saliti di tre volte in diciotto mesi. Gli imprenditori sono bollati come profittatori dell’antico regime; anche se i turisti in parte sono tornati, l’Europa, stretta dalla crisi, garantisce cicalate e promesse ma non importazioni. Soprattutto, l’abisso economico che separa l’interno dalla costa si è allargato, dilaga un regionalismo astioso e pericoloso.
Il governo, monopolizzato dal partito islamico Ennahda è bollato da tutti di incompetenza. Prevedibile, visto che la maggior parte dei ministri (che sono 78!) arriva dall’esilio e dalla galera. Ma si aggiunge anche il nepotismo che dilaga e torna la corruzione con le figure classiche degli intermediari. Le clientele islamiste ottengono denaro a pioggia, nonostante la crisi. Il governatore della banca centrale, Kamel Nabli, è stato licenziato, appunto per sostituirlo con uno più docile a queste mungiture. Intanto la nuova costituzione che doveva essere pronta per il 21 di ottobre è ferma al dibattito sull’articolo uno! Una lentezza strumentale, sospettano molti: il partito islamico infatti non organizzerà nuove elezioni fino a quando non sarà sicuro di rivincerle.
Allora lo schema è davvero questo nel mondo arabo: le classi medie, pie e conservatrici, contro la gioventù urbana povera? E se la controrivoluzione, il ritorno ai tempi di Ben Ali che qualcuno invoca, in realtà non fosse già realizzata, operante nel dominio del partito islamico?
«Attenti – mi avverte Gamal, politologo e giornalista che scopro pessimista e deluso -. Ennahda sta creando una dittatura, non è un rischio è una realtà ! Le prossime elezioni le vincerà chi avrà il controllo dei media e il partito islamista sta nominando uomini fedeli alla guida di tutti i giornali e delle reti tv. Ennahda e Ben Ali sono le due facce della stessa medaglia, i due partiti si assomigliano, la logica è la stessa, con in più il fatto che Ennahda gode di una legittimità religiosa. È la metodologia feudale del mondo arabo, che preferisce il dittatore al democratico, dove quello che conta è l’immagine della forza. Il partito islamico al governo è un partito come gli altri, più vicino a Machiavelli che a Maometto».
Mi accorgo che in Tunisia, sui muri, nei giornali, i riferimenti rivoluzionari rispetto a qualche mese fa sono evaporati; anche come parola, «rivoluzione» comincia a ossidarsi, a perdersi nel discorso. La frattura non sembra più tra rivoluzionari e controrivoluzionari, ma tra chi è per il potere e chi è contro. Parli con la gente e ti accorgi che la si invoca per risolvere un problema personale, spesso minimo. Gli ideali possono corrompere profondamente quanto il cinismo.
Related Articles
Mar Cinese Meridionale, si alza la tensione
Per comprendere le motivazioni della crescente tensione nel Mar Cinese meridionale basterebbe un dato: ben il 95% dell’enorme volume del commercio estero cinese viaggia sul mare; e per raggiungere i porti americani, indiani ed europei i mercantili della Repubblica Popolare devono per forza passare attraverso una catena di isole dirimpettaie alla costa (e controllate militarmente da USA e alleati) e attraverso l’angusto “collo di bottiglia” che è lo Stretto di Malacca.
Israele: “Le accuse di Grass sono antisemite”
Dopo la poesia sullo Stato ebraico. Berlino: “È uno scrittore, non un amico della Merkel”
Blitz inglese fallito: uccisi i due ostaggi, uno italiano