I timori sul dopo voto dietro le frasi americane

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Monti ha sorpreso tutti sul Monti-bis. Tutti tranne Berlusconi. Perché ieri il Professore ha voluto formalizzare quanto aveva già  spiegato riservatamente al Cavaliere lunedì scorso.
Non era la prima volta che il leader del Pdl glielo chiedeva, ma è stata l’ultima volta che il premier ha inteso affrontare l’argomento. «Cà ndidati, Mario. Ti sosterremmo in tanti: io, Casini, Montezemolo…», l’aveva esortato Berlusconi, che aveva ricondotto la sua proposta a un’infinita serie di considerazioni politiche interne e internazionali: la crisi dei partiti italiani e dell’economia mondiale, l’Europa e l’euro, le pressioni dei mercati e delle cancellerie. Ma il no di Monti era stato convinto e definitivo, dettato, più che dal suo status, dalla sua formazione e della sua indole. E la postilla con cui aveva lasciato un varco a una «eventuale continuazione della mia esperienza di governo», era stata simile al ragionamento svolto poi a New York.
Se Monti non ha sorpreso Berlusconi, in compenso ha disorientato il resto della «strana maggioranza». Sarà  pur vero quanto in serata ha voluto precisare il premier, di non avere cioè «nessun piano politico», di aver voluto solo dire «ai partiti» e soprattutto «ai mercati» che «sono qui semmai ce ne fosse bisogno». E non c’è dubbio che il Professore, con la sua sortita, abbia voluto aderire alle sollecitazioni del capo dello Stato, preoccupato di far giungere fuori dai confini italiani un messaggio rassicurante, desideroso di trasmettere un segnale di stabilità  e di continuità  alla vigilia di una complicata campagna elettorale. Voleva si sapesse, insomma, che il testimonial del risanamento non si eclisserà  dopo il voto.
Tuttavia le affermazioni del premier, per quanto ovvie, hanno avuto l’effetto di un’onda anomala nello stagno del Palazzo. Il primo a comprenderlo è stato Casini. Il leader dei centristi avrà  pure adottato il brand del Professore per farlo fruttare nelle urne, ma si è reso subito conto delle ripercussioni che quelle parole avrebbero potuto comportare, a parte i problemi di etichetta istituzionale. Perché se è vero che il governo Monti non può essere considerato una parentesi, è altrettanto vero che le prossime elezioni non potranno esser messe tra parentesi, quasi fossero una formalità . Ecco il motivo che ha spinto Casini a ribadire il suo appoggio a un Monti-bis, «se ci sarà  il consenso delle urne».
È stato un modo per attutire anche l’impatto che la sortita avrebbe provocato nel Pd, dove l’area vicina al segretario ha accolto l’esternazione del premier come «l’ennesima mossa di una strategia scientificamente studiata» per impedire a Bersani di arrivare a Palazzo Chigi. Nel quartier generale democratico osservano le manovre in corso, le ipotesi di Monti confermato a Palazzo Chigi, di Amato al Quirinale… «mentre a noi toccherebbe solo attaccare i manifesti», ha sorriso Fassina: «La verità  è che questa sarebbe una soluzione patologica, e non aiuterebbe il processo delle riforme». Parlava al premier, il dirigente del Pd, perché sentissero anche al Colle.
Il fatto è che Monti, annunciando per la prima volta in pubblico la disponibilità  a succedere a se stesso, ha costretto i partiti a dare una risposta pubblica sull’argomento, aprendo vecchie crepe e nuovi scenari. Perché è evidente che la manovra del Professore ha allontanato Casini da Bersani, facendolo avvicinare a Berlusconi, che infatti ieri ha aperto al Monti-bis, anche se «ci devono ancora essere le elezioni». Allo stesso modo, dentro il Pdl e il Pd si sono manifestate profonde divergenze. C’è, per esempio, affinità  tra Fassina e La Russa, quando l’ex ministro della Difesa spiega che «saremmo noi a non dover chiedere al premier di restare, a meno di non volere una politica commissariata». Di più. Se il governo Monti è stato la lavatrice della Seconda Repubblica, facendo saltare ciò che restava delle coalizioni bipolari, un governo Monti-bis sarebbe il frullatore di ciò che resta degli attuali partiti.
Ma il vero punto di rottura è sulla legge elettorale. Perché il Professore, con il suo ragionamento, ha messo un’ipoteca sulla discussione che ruota attorno alla riforma del sistema di voto, fino quasi a dettarne la soluzione. Ed è Berlusconi la cartina di tornasole. Il Cavaliere — che nei giorni in cui ha lavorato alla candidatura di Monti si era impuntato sul Porcellum — adesso è tornato sui propri passi, riabbracciando l’idea di un sistema proporzionale con premio di maggioranza al partito e non alla coalizione.
Ecco qual è lo spartiacque determinato da Monti, che ieri sulla legge elettorale — pur tenendosi formalmente a debita distanza — ha disvelato gioco e giocatori: «Alla riforma ci stanno lavorando i partiti. E con una figura chiave come il presidente Napolitano, confido che venga approvata in tempi non troppo lunghi». Più chiaro di così… Come ha agito di persona sui temi economici, ora il premier incide (in modo indiretto) sulle scelte dei partiti in materia elettorale.
Questo non vuol dire che il Professore ha ipotecato Palazzo Chigi per la prossima legislatura, perché senza una sua «discesa in campo» sarebbe complicato per chiunque il tentativo di mettere in mora il responso delle urne. Piuttosto, mantenendosi terzo nella disputa, il premier diventa il candidato più accreditato alla successione di Napolitano. «In fondo Monti è una personalità  predisposta a essere nominata e non eletta», dice La Russa. E per «nomina» il dirigente del Pdl intende anche «l’elezione di secondo grado del capo dello Stato».


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