Il caso Ingroia agita le correnti delle toghe

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ROMA — Il giorno dopo le critiche del presidente dell’Associazione nazionale magistrati ai pubblici ministeri di Palermo per i loro «comportamenti oggettivamente politici che possono offuscare la loro immagine di imparzialità », c’è chi passa al contrattacco. Da Palermo il procuratore aggiunto Teresi, segretario della sezione locale del «sindacato dei giudici», accusa: «Leggo le affermazioni del presidente Sabelli come un ennesimo episodio di critica affrettata che, oggettivamente, suona come ulteriore elemento di attacco nei confronti di quei colleghi la cui solitudine istituzionale continua a preoccuparmi».

Teresi è di Magistratura democratica, la corrente di sinistra delle toghe, ma sul fronte opposto il leader della destra rappresentata da Magistratura indipendente, Cosimo Ferri, proclama: «Non possiamo accettare che all’isolamento provocato dagli attacchi della politica e dei giornali si aggiunga quello dell’Anm. Il messaggio che passa è quello di intimorire chi svolge indagini delicate. La questione della riservatezza non deve diventare un pretesto per unire la voce della magistratura associata a quella di chi isola e colpisce».
Sembra una rivoluzione. Oppure, più semplicemente, c’è un po’ di confusione. Le polemiche sui titolari dell’indagine sulla cosiddetta trattativa fra Stato e mafia al tempo delle stragi rompono o rimescolano gli schieramenti interni alla magistratura. Almeno a livello di vertice, dove si giocano più partite; per esempio quella di Mi, che pur avendo guadagnato voti alle ultime elezioni per la guida dell’Anm (Ferri è stato il giudice che ha raccolto più consensi) è rimasta all’opposizione della giunta che governa l’associazione. Nella base, i dissensi rispetto alle parole del presidente Sabelli (corrente Unicost, centrista e maggioritaria) sono poche. Si può dunque affermare che la maggioranza dei magistrati stiano con chi ha considerato quantomeno inopportuna la partecipazione del procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia e del sostituto Nino Di Matteo alla festa del quotidiano Il Fatto, dove sono intervenuti al dibattito intitolato «Due anni di stragi, vent’anni di trattativa». Materia molto prossima al contenuto della loro inchiesta, giunta all’udienza preliminare davanti al giudice che dovrà  decidere sull’eventuale rinvio a giudizio di dodici imputati.
Ingroia e Di Matteo non si pentono, anzi rivendicano il proprio diritto ad interventi pubblici che, ribadiscono, non hanno mai toccato il merito dell’indagine. «Mi auguro che in futuro l’Anm concentri la sua attenzione sulle situazioni che realmente rischiano di compromettere l’immagine di imparzialità  delle toghe e la loro effettiva indipendenza dalla politica e da ogni altro potere», dice Di Matteo che dall’Anm palermitana è presidente. Ma Anna Canepa, vicepresidente dell’Associazione nazionale, insiste: «Da parte nostra non c’è alcun isolamento verso questi colleghi. Anzi. Noi siamo i primi a volere che il loro lavoro arrivi fino in fondo e raggiunga risultati. La posizione dell’Anm non è contro i magistrati di Palermo, ma un’affermazione di principio. La libertà  di espressione che rivendichiamo per tutti noi ha due limiti: il contenuto dei processi, che non può essere affrontato pubblicamente, e il rischio di incrinare l’immagine di imparzialità ». Entrambi, sostiene Canepa, sono stati superati: «Che in quell’appuntamento si parlasse di temi che hanno a che fare con l’inchiesta mi pare innegabile. Così come il contesto politico in cui tutto è avvenuto. Era prevedibile che si sarebbero create situazioni per lo meno imbarazzanti; e se uno auspica da un palco il cambiamento del ceto politico, è inevitabile che ne derivino strumentalizzazioni politiche».
Sulle critiche a Ingroia e Di Matteo hanno certamente pesato le accuse al presidente della Repubblica arrivate dalla tribuna che li ospitava e dal pubblico che li applaudiva. La vicepresidente dell’Anm conferma: «È inopportuno trovarsi in una platea che va in quella direzione. Ma al di là  di questo aspetto, nostro compito è preservare l’indipendenza della giurisdizione. Tutta. Di fronte a simili manifestazioni di piazza, come possono sentirsi i giudici chiamati a decidere?». Il giudice del processo sulla presunta trattativa si chiama Piergiorgio Morosini, e il caso vuole che sia il segretario nazionale di Magistratura democratica. Sulle ultime polemiche tace, proprio perché sul merito del procedimento dovrà  pronunciarsi con una sentenza. Dibattono, invece, i suoi colleghi di corrente. Uno dei «padri fondatori» ora in pensione, Giovanni Palombarini, ha scritto sul circuito di posta elettronica della «sinistra giudiziaria»: «La libertà  di manifestazione del pensiero va difesa anche quando quel che vien detto può apparire scomodo. Così come vanno difesi i “comportamenti politici” impliciti nel prendere posizione su grandi temi sociali». A stretto giro gli ha risposto Giuseppe Cascini, uno dei giovani leader di Md, ex segretario dell’Anm, critico verso chi partecipa a dibattiti pubblici dove si discute del merito delle indagini: «Io penso che non sia giusto. Non mi interessa dire se sia legittimo o no. Mi interessa dire che è sbagliato, oltreché terribilmente dannoso. E quindi criticabile. E mi auguro che il diritto di manifestazione del pensiero sia riconosciuto anche a chi esprime delle motivate e pacate critiche nei confronti dei magistrati di Palermo. Saluti».
Giovanni Bianconi


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