Il loro naufragio i nostri silenzi

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LE MORTI IN MARE DI INTERE FAMIGLIE, DI GIOVANI E così come per chi vuole dare al proprio figlio un futuro migliore è come morire due volte.
Questi lutti non sono una questione di fatalità  o un fatto ineluttabile. Si muore perché le imbarcazioni sono fatiscenti, perché i soccorsi tardano oppure perché ci sono persone che si girano dall’altra parte ignorando l’urlo di disperazione. Certo, un maggior coordinamento tra chi opera in mare servirebbe a ridurre i rischi. Ma, volendo allargare doverosamente la lente, si muore anche perché non si cercano soluzioni concrete per limitare il ripetersi di tali eventi. I governi non pongono questo tema tra quelli prioritari e di conseguenza viene a mancare quell’impegno necessario per mettere in campo misure alternative.
Il dibattito pubblico su questo tema è stato spesso miope e di corto respiro. Anni fa ci dissero che i respingimenti indiscriminati in alto mare messi in atto dall’Italia salvavano vite umane, omettendo di aggiungere cosa accadeva a quelle centinaia di persone riportate in Libia. Anche le ricette che circolano oggi continuano a focalizzarsi sulle misure di contrasto come unico antidoto ai naufragi, perdendo di vista il contesto globale in cui le migrazioni si sviluppano e le cause che sono alla base dello spostamento: guerre, violazioni dei diritti umani, insicurezza, mancanza di sviluppo, povertà .
Basta arrestare le bande criminali che organizzano il traffico dei migranti per evitare che migliaia di persone finiscano negli abissi? La risposta purtroppo è no, poiché non è questa la radice del problema. I trafficanti, che pure hanno enormi responsabilità  e vanno perseguiti, esistono perché c’è una forte domanda di persone che spesso non hanno scelta. Se un migrante in cerca di lavoro potesse fare domanda per accedere a quote messe a disposizione dai vari paesi europei non giocherebbe alla roulette russa nel Mediterraneo. Se un rifugiato eritreo o somalo che arriva in Libia sapesse di poter essere trasferito in Italia, Francia o qualsiasi altro paese sicuro attraverso vie legali non si affiderebbe ai trafficanti indebitandosi e rischiando la vita. Aspetterebbe il suo turno.
E invece nonostante le sollecitazioni dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati agli Stati membri dell’Unione europea, lo scorso anno sono stati principalmente Stati Uniti, Canada e Australia a dare la possibilità  a 80mila rifugiati di essere trasferiti regolarmente sui loro territori attraverso il programma specifico di reinsediamento.
E non è vero che l’Europa è la destinazione ambita da tutti, come spesso si sente dire da politici e giornalisti inclini alla suggestione dell’invasione. Com’è noto molti migranti stanno lasciando il vecchio continente verso i nuovi mercati dei Paesi emergenti. Allo stesso tempo, per i rifugiati sono le cifre a parlare: oltre l’ottanta per cento di loro si sposta nei paesi confinanti, nel sud del mondo. Nel solo campo di Dadaab in Kenya vivono da oltre venti anni circa 500mila rifugiati somali. Nei ventisette paesi dell’Unione Europea lo scorso anno hanno fatto domanda d’asilo 277mila persone. E basta guardare a quanto sta accadendo in Siria per avere l’ennesima conferma: oltre 250mila siriani sono scappati in Turchia, Giordania, Libano e Iraq mentre nei primi sei mesi del 2012 nei paesi dell’Unione Europea sono stati settemila i siriani a inoltrare una domande d’asilo. Molti di loro avranno dovuto rischiare la vita su una carretta del mare.
Limitare le morti nel Mediterraneo dunque è una questione di ampia portata che merita una risposta articolata che vada ben oltre l’arresto dei presunti scafisti e i confini nazionali italiani. E che non può più attendere.
*portavoce Unhcr


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