IL NEMICO GLOBALE

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SI ALZANO a Tunisi, al Cairo, a Khartum, a Gerusalemme, a Gaza, a Damasco, naturalmente a Teheran dove non aspettano di meglio, o tra le minoranze islamiche dell’India. Ma se si deve dare ascolto ai sondaggi, il primo effetto di questo ritorno del fanatismo antiamericano, dopo l’omicidio dei quattro uomini a Bengasi sta dando ragione alla calma, riflessiva risposta di Barack Obama, che non si arrende, e non al farfugliante opportunismo dell’avversario Romney. Le crisi possono essere tanto utili quanto devastanti, perché accendono riflettori potenti e implacabili sulle virtù come sui limiti degli individui. Ma la crisi continua. Bruciano persino le ambasciate a Bagdad e a Kabul, proprio quelle capitali che oggi dovrebbero essere la vetrina della democrazia esportata al costo di tante vite, americane e locali. E invece sembrano dimostrarsi refrattarie, addirittura infuriate, a quanto, in questi 11 anni, hanno fatto Americhe bellicose e Americhe disponibili, amministrazioni di falchi e amministrazioni di colombe, come se l’odio per la democrazia americana, e per quell’Occidente che essa rappresenta più di ogni altra, trascendesse i nostri distinguo ideologici interni. Non ce l’hanno con Bush o con Obama, quelli che si lanciano contro i muri delle ambasciate disposti anche a morire, oltre che a uccidere. Ce l’hanno con quello che l’America rappresenta ai loro occhi allucinati e che altri popoli impararono a leggere in maniera molto diversa, come il segno di una nazione che aveva riportato non la democrazia, ma la possibilità  della democrazia. E «noi non ci ritireremo mai dal mondo, perché questi sono il ruolo essenziale, la natura degli Stati Uniti» ha infatti detto Obama accogliendo i resti di due diplomatici e i due uomini della scorta uccisi in Libia. Neppure intendiamo permettere che «le nazioni arabe si affranchino dai tiranni soltanto per cadere nella tirannide della folla», lo ha subito affiancato il segretario di Stato, Clinton. Affidarsi a quel filmetto idiota e provocatorio contro il profeta Mohammed, che «sembra prodotto da un gruppo di 13enni con un baule di lenzuola vecchie e di barbe finte», come ha scritto Gail Collins sul New York Times, è ingenuo e superficiale. Certamente chi aveva provveduto ad arricchirlo con sottotitoli in arabo prima dell’11 settembre scorso perché nessun dettaglio offensivo sfuggisse ai destinatari, ha ottenuto il risultato che si proponevano, chiunque fosse davvero e chiunque lo manovrasse. Ma non si può spiegare una tale sollevazione lungo tutta la “mezzaluna islamica”, dall’Atlantico all’Oceano Indiano con 14 minuti di pecioneria anti- islamica. Il punto chiave, che già  era stato indicato senza mezze parole da Osama Bin Laden lanciando nel 1996 la jihad terroristica di Al Qaeda e che queste sollevazioni ripropongono è proprio quello indicato da Obama e dalla Clinton: è la presenza, se non addirittura l’esistenza, dell’America e ciò che essa rappresenta — nella laicità  dello Stato, nel ruolo delle donne, nel rispetto delle leggi e dei diritti, seppure spesso più enunciato che praticato — a terrorizzarli. Come tanti osservatori non allucinati notarono quando improvvisamente “noi” ci accorgemmo di “loro”, deve essere spaventoso agli occhi di ayatollah, mullah, imam, califfi, dottori tradizionalisti della sharia, assistere all’infezione galoppante di valori occidentali nella società  globale. Un telefono smart, un tablet, una connessione in rete senza limiti censori, i mezzi di comunicazioni fisici, la globalizzazione degli oggetti e dei consumi e dei desideri è una minaccia radicale e intollerabile per chi sogna di tenere le donne in gabbia o di riportare le tribù alla pastorizia o alle carovane nel deserto. Soltanto uno spettacolo recente e planetario come quello delle Olimpiadi deve essere stato un kolossal blasfemo, con quelle donne impudiche e atletiche, con quella mescolanza di razze e di facce, un gigantesco film dell’orrore, per gli ispiratori e i burattinai di coloro che oggi organizzano gli assalti ai simboli dell’America, le sue legazioni. Ogni iPhone, concupito ad Aden come nelle file davanti ai negozi Apple è una bestemmia, un santino perverso di un dio empio, perché materializza la minaccia di una nazione che sa ancora inventare e prosperare. E le primavere arabe, come ha notato Thomas Friedman, sono state tanto espressione di desiderio di libertà , quanto sono state voglia di prosperità  e di consumi, esattamente come avvenne nella fine repentina del Socialismo Reale in Urss e nella nazioni dell’Est. Una voglia che si rivolterà  contro chi l’ha sollecitata, se non saprà  soddisfarla Per questo l’America per ora è calma. Sa che la guerra santa fra due epoche, il passato e il futuro, non finirà  neppure inviando altri reggimenti, come s’illusero di fare quei neo-con che ora, purtroppo, sono stati resuscitati e si raccolgono attorno a Mitt Romney, per un’ultima carica sanguinosa, forse in Iran. I sondaggi dicono che negli Stati chiave, quelli che decideranno chi sarà  il prossimo presidente, l’Ohio, la Florida, la Virginia, il Wisconsin, il Michigan, che Romney deve vincere assolutamente per sperare di cacciare “l’alieno” Barack Hussein, per ora gli elettori scelgono Obama per riflesso patriottico e per coscienza di essere quello che sono. Un’America che continuerà  a essere odiata da chi teme, come già  l’Urss e la Cina Maiosta, non le sue armi, ma la sua “way of life”, il suo modo confuso, disordinato, violento, insensato ma vivo e libero, di esistere.


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