Il tesoro afghano di Sar-E-Sang

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SAR-E-SANG (Afghanistan). Per arrivare a Sar-e-Sang ci vogliono scarpe buone e una certa dose di pazienza e determinazione. Sia che si parta dalla capitale afghana, Kabul, salendo a nord-est per la valle del Panshjir, per poi superare il passo di Anjoman (4430 metri) e raggiungere infine la valle di Iskazer, sia che si decida (come ha fatto chi scrive) di partire da Faizabad, capoluogo della provincia nordorientale del Badakhshan, puntando a sud-est, verso i villaggi di Baharak e Jurm, per poi seguire il corso del fiume Kokcha, dentro una valle dai fianchi stretti, lungo una strada accidentata, isolata e pericolosamente inclinata verso il fondovalle. Una volta a Sar-e-Sang, la fatica del lungo viaggio è ricompensata dal fatto di trovarsi tra le più antiche miniere di lapislazzuli del mondo, già  attive, secondo alcuni resoconti, 7000 anni fa.
L’affare dei lapislazzuli
Il villaggio dei minatori, presidiato da un piccolo avamposto della polizia, si inerpica su per le pendici della montagna, dove lingue rigonfie di pietre segnalano i vari ingressi dei tunnel d’estrazione. Per raggiungerli, si passa per i vicoli del villaggio, che alla luce del sole riflettono il blu e il turchese di migliaia di schegge di lapislazzuli grezzi: sentieri luminosi, guide sicure verso il cuore della montagna. È qui, nelle viscere delle montagne afghane, che si trovano decine e decine di minatori, perlopiù giovani, ricoperti di polvere dalla testa ai piedi. Hamidullah, il viso segnato dalla stanchezza, le mani callose, è uno di loro. Lavora senza protezioni, con strumenti rudimentali: un piccone e alcuni candelotti di dinamite. Una volta accesa la miccia, corre veloce verso l’uscita del tunnel. Un lavoro duro e pericoloso. E pagato male. Hamidullah se ne lamenta: «Guadagniamo il poco che ci basta per sopravvivere. E viviamo in un posto lontano da tutto. E pensare che con i lajward (lapislazzuli, ndt) si guadagnano un mucchio di soldi».
Hamidullah ha ragione: quello dei lapislazzuli, delle pietre preziose e più in generale dei minerali sedimentati nel sottosuolo afghano è un affare molto redditizio. Tra i primi a riconoscerne il potenziale sono stati gli inglesi, nel corso di una spedizione nel 1815. Da allora, diversi paesi hanno mostrato interesse, in momenti differenti. Per restare al periodo più recente, negli anni Settanta e Ottanta del Novecento protagonisti nelle ricerche geologiche erano i russi, sostituiti poi dagli americani, che dal 2005-6 hanno condotto diversi studi. Mentre è almeno dal 2004 che la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale suggeriscono di puntare sul settore minerario, aprendo agli investimenti privati stranieri, per rendere l’economia locale meno dipendente dagli aiuti internazionali, tanto da aver spinto il governo afghano a elaborare un piano quinquennale per un «investment-friendly environment».
L’attenzione della comunità  internazionale è cresciuta sensibilmente nel giugno 2010, quando gli esperti dello U.S. Geological Survey hanno fatto sapere alla stampa di essersi imbattuti «in un’intrigante serie di vecchie carte e di dati alla biblioteca dell’Afghan Geological Survey di Kabul». Carte e dati raccolti dai sovietici, che segnalavano un vero e proprio tesoro: oro, ferro, rame e cobalto, magnesio, cromite, nichel, mercurio e litio, oltre alle pietre preziose. Gli americani hanno parlato di un patrimonio potenziale da un trilione di dollari circa, una cifra ritenuta troppo prudente dal ministero afghano per le Miniere, secondo le cui stime i depositi minerari (esclusi dunque i depositi di gas e petrolio nel nord del paese) presi in considerazione finora, pari al 30% del totale, varrebbero circa 3 trilioni di dollari.
Durante l’epoca sovietica
«Sul valore complessivo del patrimonio minerario afghano continua a esserci un balletto di cifre, difficile riuscire a ricavarne un valore esatto», sostiene Javed Noorani, ricercatore, coordinatore delle attività  di monitoraggio del settore minerario per conto di Integrity Watch, organizzazione non governativa afghana tra le più serie e accreditate del paese. Noorani, che incontriamo a Kabul, non si stupisce dell’attenzione che giornalisti, politici e uomini d’affari stanno riservando alle miniere afghane, ma ricorda che «qui in Afghanistan hanno continuato a essere una fonte di reddito per molti, anche durante gli anni di guerra civile. Non sono certo una novità ».
Le stesse miniere di Sar-e-Sang, per esempio, sono state una fonte di rendita fondamentale, durante la resistenza ai sovietici, per il Jamiat-e-Islami, il partito fondato nel 1967 da Burhanuddin Rabbani, tra le cui fila hanno figurato personaggi come il “maresciallo” Mohammed Qasim Fahim, oggi vice del presidente Hamid Karzai, e lo stesso leone del Panjshir, il comandante Massud. Fu proprio Massud, una volta che il Jamiat prese il potere nel 1992, a “nazionalizzare” le miniere di smeraldi e lapislazzuli del Badakhshan e del Panjshir ricavandone, secondo alcune stime, 200 milioni di dollari l’anno. Secondo quanto scrive Matthew DuPee, analista per il Dipartimento della Difesa americano, nel saggio Afghanistan’ Conflict Minerals: The Crime-State-Insurgent Nexus, i tagiki dell’Alleanza del nord hanno continuato ad avere sovranità  sulle miniere del Panjshir anche durante il regime talebano, quando gli studenti coranici cercavano maldestramente di estrarre marmo dalle cave della provincia meridionale dell’Helmand.
Oggi, la situazione continua a essere frammentata: «Nel 2005 il ministro delle Miniere stimava che quasi l’80% di tutte le miniere del paese erano sotto il controllo di criminali o comandanti locali, con alcune di queste controllate da attori non-statali sin dal 1992», scrive DuPee. Javed Noorani concorda: «Negli ultimi mesi si è prestata molta attenzione alle grandi miniere, quella di rame di Mes Aynak, nella provincia di Logar, 40 chilometri da Kabul, appaltata ai cinesi, e quella di ferro Hajigak, nella provincia centrale di Bamiyan, con gli indiani in prima fila. Ma esistono centinaia di miniere di piccole e medie dimensioni, appaltate a piccole aziende o in mano a signorotti locali, più difficili da monitorare rispetto ai grandi gruppi e alle grandi miniere». Tra queste, la miniera d’oro del distretto di Qara Ghazhan Dushi, nella provincia di Baghlan, gestita dalla ditta Afghan Krystal Natural Resources, che per tre anni non ha pagato royalties allo stato; la miniera di cromite nella provincia di Khost, o, ancora, la miniera di cromite nel deserto di Dadukhel, nella provincia di Logar, da cui si stima che ogni giorno vengano contrabbandate circa 400 tonnellate di cromite. Anche qui a Sar-e-Sang, le cose non vanno meglio: molti dicono che gran parte delle miniere di lapislazzuli del Badakhshan siano sotto “tutela” del maresciallo Fahim, il vicepresidente, che le sfrutterebbe illegalmente insieme a Fawzia Koofi, già  vicepresidente del parlamento afghano, e ad alcuni membri di una delle più importanti famiglie afghane, i Mojadidi.
E nell’era post-talebana
Molto più vividamente di altri settori, le miniere afghane raccontano infatti tutte le incongruenze dell’Afghanistan post-talebano: quelle di un paese senza istituzioni, con un governo a sovranità  limitata e con scarse risorse, dove le ricchezze vengono sottratte in modo parassitario e predatorio da gruppi di interesse sempre più forti. Gruppi che mescolano in modo promiscuo politica, affari, corruzione e guerriglia. Perché in Afghanistan ogni attività  economica è una fonte di profitto per i guerriglieri in turbante, mossi più da prosaici interessi materiali che dall’ideologia: il denaro prima dei valori, i dollari prima del jihad. Per i militanti del network Haqqani, attivo nelle aree a ridosso con il confine pakistano, o per quelli del Tehrik-i-Taliban Pakistan, molti soldi provengono proprio dalle estrazioni illegali, dal contrabbando dei minerali, dall’estorsione di tasse, dalla protezione offerta o imposta per proteggere e scortare le merci nel traffico transfrontaliero verso il Pakistan. Non è un caso che alcune delle aree più problematiche sotto il profilo della sicurezza – le province di Khost, Ghazni, Logar, Paktia, Baghlan – siano anche quelle con ampie riserve minerarie sfruttate illegalmente.
Non è un caso che molti afghani si dicano preoccupati: il grande patrimonio minerario afghano potrebbe diventare un fattore di instabilità , una fonte di conflitto, anziché uno strumento per rendere il paese economicamente auto-sostenibile, come indicato dalla strategia per il prossimo decennio adottata al vertice di Tokyo dello scorso luglio: «Il rischio c’è – ammette Javed Noorani – tutto dipende dal modo in cui saranno gestiti i contratti, dalla trasparenza del ministero delle Miniere, fin qui scarsa, dall’attenzione che si presterà  agli impatti sociali e ambientali delle miniere. E soprattutto dalla volontà  politica di mettere fine ai soprusi di signori della guerra, trafficanti e signorotti locali». Per ora, i dubbi sono maggiori delle speranze: «Quel che guadagno oggi continuerò a guadagnare domani. Dubito che i miei figli diventeranno benestanti grazie alle miniere», sostiene Hamidullah, prima di immergersi di nuovo nel ventre cavo della montagna che ospita le miniere di Sar-e-Sang.
Arrivano i cinesi
Sono due le miniere afghane su cui si è concentrata l’attenzione dei media: il 20 novembre 2007 il gigante statale China Metallurgical Group si è aggiudicato il diritto esclusivo di estrarre rame dalla miniera di Aynak, 40 chilometri a sud della capitale, nella provincia di Logar, per 3 miliardi e mezzo di dollari (con un consorzio di cui detiene il 75%, mentre il 25% fa capo all’azienda privata Jiangxi Copper Company Limited, JCCL). Un consorzio metallurgico di sette compagnie private, guidate dalla Steel Authority of India Ltd, sta negoziando invece in questi giorni le clausole finali per il diritto di esplorazione di tre dei quattro blocchi della miniera di ferro di Hajigak, nella provincia centrale di Bamiyan. Un affare da 1.8 miliardi di tonnellate di ferro. Tra gli altri grandi affari, quello della China National Petroleum Corporation che a giugno a cominciato a esplorare tre bacini petroliferi dell’Amu Darya, nelle province settentrionali di Sar-e-Pul e Faryab, dove si stima ci siano 87 milioni di barili di petrolio. Recentemente, la ExxonMobil ha dichiarato al ministero delle Miniere afghane il proprio interesse per lo sfruttamento del bacino petrolifero afghano-tajiko, che secondo le stime nasconderebbe 1.8 miliardi di barili.

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Giuliano Battisto. Giornalista e ricercatore

Giornalista e ricercatore free-lance, socio dell’associazione di giornalisti indipendenti Lettera22, collabora con quotidiani e riviste, tra cui il manifesto e Lo Straniero. Coordina il sito di informazione economica www.sbilanciamoci.info, collabora inoltre con minimaetmoralia, il blog letterario della casa editrice Minimum fax, cura il programma del Salone dell’editoria sociale (www.editoriasociale.info). In Afghanistan ha realizzato due ricerche: sulla società  civile e sulla percezione delle truppe straniere. Ne sta realizzando una terza su “pace, giustizia e riconciliazione” per il network Afgana. Per le Edizioni dell’Asino è autore di due libri-intervista: Zygmunt Bauman. Modernità  e globalizzazione e Per un’altra globalizzazione. Raccoglie materiali per un libro sull’Afghanistan.


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