In missione nella banlieue le suore “tate” dei bimbi islamici

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PARIGI. Missionarie in ‘banlieue’, pronte a condividere la vita di decine di famiglie di immigrati in uno di quei quartieri dove la disoccupazione, la miseria e la
piccola delinquenza regnano sovrani. Sono tre suore, ma per gli abitanti del grattacielo in cui vivono sono, più semplicemente, «le vicine gentili», l’eccezione di un mondo che guarda con malcelata diffidenza gli abitanti di Grigny 2, borgata a sud della capitale, dove si accalcano immigrati di novanta nazionalità  differenti. Poco meno di 30 mila abitanti, Grigny è uno degli ultimi bastioni della vecchia cintura rossa: dal 1945 a oggi ha avuto solo quattro sindaci, tutti comunisti. E’ considerato il comune più povero della regione parigina: secondo il primo cittadino, Philippe Rio, il 44 per cento della popolazione vive sotto la soglia della povertà . Qui hanno deciso di venire a vivere le tre suore, il cui aspetto non fa certo pensare al loro status: se non fosse per la croce che pende dal collo, nessuno potrebbe capire che si tratta di tre monache.
Maà¯té Barrès, Marie-Armelle Girardon e Bernadette Vallez vivono nella banlieue di Grigny da cinque anni. 47 anni la prima, 74 anni le altre due: «Non ci nascondiamo, ma preferiamo essere discrete », dicono per giustificare il loro abbigliamento. Appartengono alla congregazione di Nostra Signora e sono schive, non amano parlare di loro stesse. Cosa fanno ? «Preghiamo», risponde una di loro, quasi intimidita dalla curiosità  che suscita, ogni tanto, la loro esperienza: «Qui tutti pregano – spiega Marie-Armelle – ma per i musulmani la nozione stessa di vita religiosa è una stramberia dei cristiani. Spesso non capiscono perché viviamo tra di noi, senza marito e senza figli».
Il loro appartamento, al decimo piano di un triste edificio, è decorato solo con le pitture di Suor Bernadette. All’interno hanno creato un piccolo oratorio per le preghiere. I vicini, fra cui non ci sono praticamente cristiani, le osservano con un misto di curiosità  e di rispetto. Le tre monache non fanno altro che rendersi utili, aiutare, senza nessuna volontà  di proselitismo: «Abbiamo semplicemente risposto all’appello del nostro vescovo, che chiedeva la presenza di suore in questa zona. Cerchiamo di vedere i bisogni degli altri, di rispondere in base alle nostre capacità ». E soprattutto vivono la vita di tutti i giorni della borgata: la loro auto è stata vandalizzata più di una volta, i rischi di borseggio sono quotidiani. Eppure, le tre monache sembrano non badarci: semplicemente, si adattano, per esempio evitando di uscire con una borsa. Di aiuti ne danno molti: insegnano alle donne adulte a leggere e a scrivere, leggono ai bambini, si occupano delle pratiche amministrative, organizzano incontri e cercano di far regolarizzare i clandestini. Sembra poco, ma è tantissimo: è difficile immaginare la vita in un quartiere dove s’incrociano decine e decine di nazionalità  diverse, un miscuglio di culture, fedi e comportamenti spesso incompatibili fra di loro. Un luogo dove la clandestinità  spinge a diffidare del prossimo e dove la sorte dei bambini è la principale fonte di preoccupazione per le monache: «Sono contenti di vedere un adulto che parla con loro e s’interessa a loro».


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